Non basta tagliare i costi per rilanciare una banca se non si generano ricavi: prima ancora che nel dissidio sulle alleanze o no, le ragioni profonde della crisi di Unicredit che ha portato al divorzio tra il Ceo uscente, Jean Pierre Mustier, e il consiglio d’amministrazione dell’istituto di Piazza Gae Aulenti stanno proprio qui. Come spiega in questa intervista a FIRSTonline il professor Marcello Messori, docente di European economy and European economic governance presso il Dipartimento di Economia e Finanza della Luiss, proprio “la mancanza di un efficace business model è un aspetto fondamentale per spiegare le passate e presenti vicende di Unicredit e per prevederne l’evoluzione”. In altre parole Unicredit deve trovare presto un nuovo Ceo ma anche e soprattutto un nuovo business model che ridia slancio alla seconda banca italiana, che oggi è “sia vulnerabile che appetibile” e che è parte essenziale del riassetto e del consolidamento in corso nel sistema bancario di cui Messori esplora con grande lucidità tutti gli aspetti in gioco. Ma ecco il suo punto di vista.
Professor Messori, s’aspettava che in Unicredit si arrivasse alla resa dei conti e all’uscita di Mustier?
“Ovviamente non avevo alcuna informazione al riguardo. Analizzando però le scelte intraprese dall’Amministratore Delegato (AD), Jean Pierre Mustier, fin dalla preparazione (fine 2016) dell’aumento di capitale di Unicredit per 13 miliardi di euro e della connessa ingente dismissione di crediti problematici, risultava evidente che la strategia del gruppo bancario fosse quella di ridurre i rischi di bilancio e di aumentare la profittabilità di breve periodo mediante la compressione dei costi e il restringimento del perimetro di attività. La strategia dell’AD di Unicredit, che si è poi concretizzata nella cessione di tutte le cosiddette “fabbriche prodotto” interne al gruppo e di varie altre attività cruciali anche fuori dall’Italia, ha avuto l’effetto di cancellare le maggiori fonti strutturali di redditività e di indebolire Unicredit nel mercato nazionale rispetto ai concorrenti (prima di tutto Intesa-San Paolo, che ha effettuato scelte opposte) e di appannarne la presenza in Europa. Come ho sottolineato da tempo, una simile strategia sarebbe stata efficace solo nella logica di un’aggregazione con un altro grande gruppo bancario europeo che avesse un modello di attività ben definito e potesse trarre vantaggio dall’efficienza gestionale e dalla (ancora rilevante) proiezione europea di Unicredit. Tale aggregazione transfrontaliera è stata, tuttavia, resa difficile dall’incompletezza dell’Unione bancaria e da persistenti difformità di regolamentazione negli stati membri dell’euro-area. Così, a fronte degli shock pandemici e della ripresa dei consolidamenti bancari nazionali in vari paesi europei, è emersa la necessità di riesaminare la strategia di Unicredit. Dopo che nei mesi passati era fallito un compromesso (a mio avviso) pericoloso, incentrato su un processo di separazione fra le attività italiane e quelle europee della banca (più facilmente aggregabili con un grande gruppo bancario dell’euro area), l’alternativa è risultata chiara: ‘forzare’ gli ostacoli regolamentari ed effettuare una grande aggregazione transfrontaliera nel settore bancario europeo oppure ridisegnare radicalmente le possibili opzioni di Unicredit mediante la definizione di un business model efficace ed efficiente anche senza fusioni. Si deve sottolineare la coerenza di Mustier: quando la prima possibilità è stata scartata, ha deciso di lasciare piuttosto che accettare una sconfessione del suo progetto”.
Nelle sue dichiarazioni ufficiali, Mustier prende atto delle divergenze tra lui e il cda sulla strategia della banca, ma lei non crede che il vero punto debole del Ceo uscente, prima e più ancora della scelta tra banca paneuropea o banca nazionale e della crescita attraverso aggregazioni o meno, sia stata la mancanza di un business model che, insieme al taglio dei costi, assicurasse ricavi e utili a Unicredit?
“Nella logica dell’aggregazione transfrontaliera, Unicredit sarebbe stato nella sostanza (anche se, forse, non nella forma) una ‘preda’ anziché un ‘predatore’ perché si sarebbe presentato all’appuntamento con costi compressi ma senza un efficace business model di medio-lungo periodo redditizio e sostenibile. La separazione fra le attività italiane e quelle europee avrebbe accentuato questo aspetto, perché avrebbe minato l’unità del gruppo anche se con effetti positivi sulla profittabilità di breve termine. Sono, pertanto, d’accordo che la mancanza di un efficace business model è un aspetto fondamentale per spiegare le passate e presenti vicende di Unicredit e per prevederne l’evoluzione. Come ho scritto anche di recente, specie nel dopo-pandemia, i gruppi bancari italiani non potranno aumentare la loro profittabilità di medio periodo se non adottando uno dei molti possibili business model potenzialmente efficienti. Ad esempio, data la struttura produttiva schiacciata sulle piccolissime e piccole dimensioni di impresa, l’economia italiana necessita di gruppi bancari con business model tradizionali, la cui redditività sia però assicurata dall’internalizzazione di ‘fabbriche-prodotto’ e da adeguate economie di scala; di qui, la necessità di aggregazioni per i gruppi bancari di media e piccolo-media dimensione. La debolezza dei mercati finanziari non bancari apre, peraltro, promettenti spazi per altri business model bancari più innovativi: per esempio, attività incentrate sull’offerta di servizi più sofisticati che accompagnino le piccole e le piccolo-medie imprese italiane efficienti verso l’accesso (magari indiretto) al mercato dei debiti (corporate bond) e verso il rafforzamento della loro patrimonializzazione mediante emissioni azionarie. Nonostante tutto, Unicredit rimane una banca con una forte proiezione europea. Esso deve, quindi, scegliere il proprio business model per rafforzare tale vocazione e attuare le conseguenti riorganizzazioni”.
C’è chi dice che, visti i tracolli di Unicredit in Borsa dopo l’annuncio del ribaltone, andrebbe accelerata la scelta del nuovo Ceo ma, secondo lei, questa scelta non andrebbe legata alla chiara identificazione del tipo di banca che Unicredit vorrà essere nel futuro? In particolare, che mestiere dovrebbe fare Unicredit dopo che ha venduto asset come Pioneer e Fineco?
“Come ho appena sostenuto, molte sono le alternative possibili rispetto alla tipologia di banca da privilegiare; e non spetta certo a un osservatore esterno, quale sono, fornire suggerimenti operativi ad amministratori molto più informati. E’ inoltre vero che la scelta del Ceo sarà condizionata e condizionerà il business model della banca. Ma non bisogna essere troppo rigidi al riguardo: si tratterà di avviare un processo fra azionisti, amministratori e top management che converga verso un efficace equilibrio. Resta da notare che tale processo è sottoposto a vari vincoli e che il tempo non è molto. Gli azionisti di Unicredit, connotati da una forte presenza di investitori professionali e istituzionali internazionali, ritenevano di poter recuperare o – almeno – limitare le passate pesanti perdite grazie a un’aggregazione transfrontaliera con Unicredit come ‘preda’; e, nonostante gli ostacoli regolamentari, agli attuali valori di mercato la banca rimane una ‘preda’ appetibile per molti primari gruppi bancari europei. Pertanto, la definizione del nuovo business model e la scelta del Ceo devono risultare accettabili alla maggior parte gli azionisti; solo così si porrà fine alla bassa quotazione rispetto al patrimonio che, se continuasse, potrebbe avere effetti fortemente destabilizzanti”.
Le divergenze sulle alleanze sembrano essere state un altro dei motivi che ha convinto Mustier ad abbandonare il campo e a nessuno è sfuggito il significato della designazione dell’ex ministro Padoan alla presidenza della banca: l’idea della acquisizione con dote di Mps, certamente sostenuta dal Tesoro e della Banca d’Italia per risolvere il rebus senese senza rischi sistemici, le sembra percorribile? In assenza di aggregazioni, Unicredit, che è pur sempre la seconda banca italiana, non corre il rischio di essere scalata dall’estero?
“Come ho appena riconosciuto, Unicredit è oggi sia vulnerabile sia appetibile. Non credo però che le iniziative appropriate per superare tale vulnerabilità e per contenere – al contempo – le possibili reazioni negative degli azionisti risiedano nell’addossare fardelli pesanti a un gruppo bancario che è oggi in difficoltà ma che potrebbe svolgere un ruolo positivo nell’Unione europea e in Italia, una volta dotato di un business model con respiro strategico. A mio avviso, Unicredit sarà in grado di riconquistare una posizione nei mercati nazionali ed europei che sia (almeno potenzialmente) all’altezza di quella passata, solo se realizzerà rilevanti riorganizzazioni; e solo dopo aver effettuato queste riorganizzazioni e aver ottenuto i primi positivi risultati, Unicredit potrà diventare un attore efficiente dei processi di aggregazione nazionali e – soprattutto – europei. Forzare i tempi magari al fine di utilizzare significativi vantaggi fiscali, respingerebbe Unicredit in una logica di breve termine: ‘drogare’ la profittabilità immediata al prezzo di non definire un chiaro business model e di non lavorare per la sua realizzazione”.
Se per una ragione o l’altra non si arrivasse al matrimonio tra Unicredit e Mps, che futuro vede per la banca senese? Dovremo rassegnarci alla nazionalizzazione eterna?
“Nonostante i processi di ristrutturazione degli ultimi anni e la dote fiscale (derivante da nuove regole europee e da possibili agevolazioni nazionali), Mps resta gravato da una pesante eredità negativa. Sarebbe troppo lungo ripercorrere qui la drammatica catena di errori manageriali e politico-istituzionali che hanno costretto alla ricapitalizzazione precauzionale di Mps alla fine del 2016 come unica possibile alternativa al suo fallimento. La situazione attuale di Mps è la figlia di quella catena di errori. Non spetta certo a un ricercatore esterno, che non ha responsabilità manageriali o istituzionali, individuare una strada per risolvere il caso Mps. Mi limito a sottolineare che – solitamente – è una pessima idea cercare la soluzione dei gravi problemi di un dato gruppo bancario addossando tali problemi a un gruppo concorrente che è vulnerabile perché privo di un’efficace strategia. Più in generale, non penso che l’efficienza del settore bancario italiano migliorerebbe se le banche più grandi fossero spinte a ‘salvare’ banche in difficoltà senza un disegno strategico coerente con il rafforzamento di un chiaro business model. Il caso del clamoroso fallimento dei due fondi Atlante, istituiti nel 2016 per soccorrere le due banche venete e – in subordine – lo stesso Mps, dovrebbe servire da monito”.
L’Opa Intesa su Ubi e quella di Credit Agricole Italia su Creval hanno aperto la strada al risiko bancario: si ipotizzano fusioni tra Banco Bpm e Bper e a una possibile aggregazione di istituti del Sud attorno alla Banca Popolare di Bari. Quali sono, secondo lei, i punti di riferimenti a cui dovrebbe ispirarsi il consolidamento per rafforzare il sistema bancario italiano? Pensa che le aggregazioni dovrebbero estendersi anche al risparmio gestito?
“La struttura del mercato, in cui operano i primi venti gruppi bancari italiani per dimensione dell’attivo, sottolinea l’urgenza di aggregazioni fra gli attori che hanno dimensioni medio-grandi e medio-piccole. Per chiarire il punto, si assumano come date le dimensioni dei due maggiori gruppi: Intesa-San Paolo e Unicredit. Ciascuno dei quattro gruppi medi, che – per ragioni diverse – si focalizza su specifici segmenti territoriali di mercato, ha una dimensione dell’attivo compresa fra un sesto e un quinto di quella di uno dei due maggiori gruppi e pari a poco meno del doppio di quella di uno dei concorrenti immediatamente successivi. In tale situazione, ogni ipotetica aggregazione fra i quattro gruppi bancari medi ridurrebbe la frattura dimensionale rispetto ai due gruppi bancari maggiori; e, se non coinvolgesse banche in stato critico o in piena riorganizzazione, essa rafforzerebbe la concorrenza nel mercato nazionale. Analoghe considerazioni valgono per i gruppi medio-piccoli e piccoli compresi fra i primi venti. Mi sembra che questa chiave di lettura permetta di discriminare fra le varie possibili aggregazioni. Aggiungo solo due notazioni. Primo: data la loro forte e persistente dipendenza dalla proprietà bancaria, in Italia anche le attività del risparmio gestito potrebbero trarre giovamento da ulteriori consolidamenti; ma al riguardo andrebbe valutato quanto si è già fatto e andrebbero introdotte altre qualificazioni. Secondo: tenendo conto dei pessimi risultati inanellati negli ultimi venti anni da molte banche locali (specie popolari), appare sconsigliabile puntare su aggregazioni che siano giustificate dalla sola contiguità territoriale o dal radicamento in segmenti territoriali specifici”.
C’è chi paventa una nuova ondata di Npl e Utp a causa della forte recessione in atto, ma non sarebbe saggio rivedere il Calendar Provisioning, anche se la Bce e la Banca d’Italia non sembrano di questa idea?
“Anch’io prevedo che, non appena si attenuerà l’incidenza delle garanzie statali e scadranno le moratorie, vi sarà un forte appesantimento dei bilanci bancari a causa di un consistente aumento dei crediti problematici (NPL e, in particolare, UTP). Senza appropriate iniziative preventive, tale appesantimento rischia di imporre ricapitalizzazioni a quella parte del settore bancario europeo che ha una profittabilità inadeguata per raccogliere risorse sul mercato. Non va peraltro dimenticato che la fissazione di tempi massimi per la liquidazione delle varie tipologie di NPL e la stessa definizione più restrittiva di crediti problematici sono i più recenti effetti di un lungo processo di ridisegno della regolamentazione bancaria effettuato in risposta alla crisi finanziaria internazionale e alla crisi europea. Sarebbe pertanto paradossale se, allo scoppio di ogni nuova crisi (pur se di origine non finanziaria), i responsabili delle regole finanziarie facessero marcia indietro rispetto alle risposte date alla crisi precedente per poi ritornare sui propri passi fino alla crisi successiva. Una regolamentazione del genere risulterebbe del tutto screditata. Il dilemma diventa, perciò, il seguente: come evitare di aggravare le difficoltà del settore bancario senza minare la credibilità della regolamentazione. A me pare che la risposta sia stata già offerta dalle decisioni assunte dai regolatori europei fra marzo e aprile 2020: una temporanea sospensione di alcuni presidi che gravavano sui bilanci bancari o interventi, anche indiretti, di mitigazione. Lo stesso andrebbe fatto per il Calendar provisioning e per la nuova definizione di NPL, che entreranno in vigore all’inizio del prossimo anno. Confido che le autorità europee sapranno trovare un efficace punto di equilibrio entro metà dicembre”.
Sul tavolo resta anche la questione della distribuzione o meno dei dividendi bancari: è giusto congelarli ancora o sarebbe saggio distinguere caso per caso?
“Anche la risposta a questa domanda non può essere netta. La ratio della raccomandazione, che caldeggia la non-distribuzione di dividendi, è ovvia: rafforzare il patrimonio medio delle banche europee in vista dell’aumento di NPL. E’ però altrettanto ovvio che la mancata distribuzione di dividendi disincentiva l’allocazione della ricchezza in azioni del settore bancario e, di conseguenza, abbassa il valore patrimoniale delle stesse banche. Quale effetto prevale? Non dispongo di una robusta evidenza empirica per rispondere al quesito. Pertanto, posso solo azzardare una risposta di buon senso. Almeno in termini generali, la raccomandazione in questione non va prolungata per troppo tempo. Ciò apre alla possibilità del “caso per caso” che andrebbe però affidato alle normali procedure di vigilanza sulle singole banche senza pressioni regolamentari”.