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Messori: “Nel futuro di Unicredit si intravede Mediobanca”

Imagoeconomica

Che scenari si aprono per Unicredit e Mps ma, più in generale, per il sistema bancario italiano dopo la rumorosa rottura delle trattative tra la banca di Andrea Orcel e il Mef sulla banca senese? Siamo proprio sicuri che Unicredit debba inseguire il modello di banca della sua grande rivale Intesa Sanpaolo o non debba invece pensare a un modello di attività alternativo e meno tradizionale integrandosi non con una banca commerciale ma con una banca d’investimento come ad esempio Mediobanca? E in futuro l’ipotesi di un polo finanziario italiano banco-assicurativo composto da Unicredit, Mediobanca e Generali è pura fantasia o potrebbe diventare un affascinante ipotesi di lavoro? Quanto al Monte dei Paschi pensare che la proroga del controllo pubblico possa evitare una profonda ristrutturazione o, peggio, aprire la strada all'”Alitalia delle banche” e cioè a una somma delle debolezze bancarie come quella che nascerebbe dall’unione tra Mps, Carige e Banca Popolare di Bari sarebbe una vera follia oltre che un insostenibile spreco di denaro pubblico. Queste e altre riflessioni, non escluse quelle sull’importanza del terzo polo bancario e del rapporto con il fitto tessuto di piccole e medie imprese, sono al centro di questa intervista rilasciata a FIRSTonline da uno dei più brillanti economisti italiani e grande esperto di banche come Marcello Messori, docente di Politica economica europea dell’Università Luiss di Roma. Ecco il suo pensiero su temi cruciali per il sistema bancario e finanziario italiano che il mancato matrimonio tra Unicredit e Mps ha reso di ancor più stringente attualità.

Professor Messori, in tempi non sospetti Lei aveva manifestato forti dubbi sulla validità dell’operazione Unicredit-Mps ma, data la lunga durata delle trattative, si aspettava il fallimento del negoziato?

“I miei dubbi, discussi nel corso di un’intervista proprio con FIRSTonline a commento delle dimissioni del precedente amministratore delegato di Unicredit (Jean Pierre Mustier), derivavano da una valutazione generale e da una constatazione specifica. Sul piano generale, ritenevo che l’evoluzione del mercato finanziario italiano ed europeo e la futura competitività di Unicredit non traessero molto vantaggio da un tentativo di imitare Intesa-Sanpaolo (ISP) in termini di crescita dimensionale e di modello tradizionale di attività; sarebbe stato invece più utile, sia per il sistema nel suo complesso che per le prospettive di Unicredit, il perseguimento di un modello alternativo di attività orientato a colmare le molte lacune dell’offerta nazionale ed europea di servizi finanziari. Sul piano specifico, mi limitavo invece a notare quanto fosse complesso, per gli equilibri organizzativi di Unicredit, acquisire un gruppo bancario così problematico ma rilevante come Mps senza aver prima definito un ‘modello di attività’. Quando poi la trattativa si è formalmente avviata, ho ritenuto che il coinvolgimento di Unicredit fosse vincolato a una condizione non negoziabile: l’assimilazione dell’operazione a un vero e proprio salvataggio, privo di impatti negativi sui requisiti patrimoniali del gruppo acquirente. Questa mia interpretazione assimilava l’operazione fra Unicredit e Mps all’intervento di Intesa-Sanpaolo rispetto alle due banche venete (estate 2017). Mi pare che, alla fine, ciò non si sia verificato. In tale ottica, non sono sorpreso che la trattativa sia, almeno per il momento, fallita”.

Lei ha commentato a caldo che l’interruzione delle trattative libera Unicredit dal peso di Mps e apre alla banca di Orcel nuovi scenari o in direzione del rafforzamento della rete commerciale e del radicamento sul territorio nazionale o in direzione di una banca d’investimento: a Piazza Affari si ipotizza l’acquisizione di Banco Bpm nel primo caso e ‘integrazione con Mediobanca nel secondo. Lei che cosa ne pensa e quali sarebbero per Unicredit i pro e i contro dell’una e dell’altra operazione?

“Il mio commento si è basato su considerazioni analoghe a quelle che ho appena ricordato. Anche se l’azionista di maggioranza assoluta di Mps, ossia il Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), avesse accettato di sopportare gli oneri di ricapitalizzazione e gli altri svariati impegni finanziari richiesti da Unicredit, sarebbe stato illusorio pensare che un’acquisizione così importante come quella della banca senese sarebbe stata priva di conseguenze per il futuro modello di attività del gruppo bancario acquirente. Unicredit avrebbe, di fatto, scelto di estendere la propria attività tradizionale, inseguendo dimensionalmente ISP ma senza disporre dei fattori che rendono efficiente e profittevole quel modello tradizionale nel caso dello stesso ISP e – in generale – del settore bancario italiano: oltre alla detenzione di quote consistenti di mercato, l’integrazione con grandi ‘fabbriche-prodotto’ relative alla gestione del risparmio e della ricchezza e ai prodotti assicurativi. Detto in altri termini: dopo aver ceduto (sotto la gestione Mustier) i propri punti di forza come banca commerciale tradizionale, Unicredit si sarebbe trovato a riproporre il vecchio modello ma in una condizione molto indebolita. Nel medio termine, anche un’erogazione generosa da parte del MEF non avrebbe compensato, a mio avviso, gli svantaggi della specializzazione così acquisita.

In questa chiave di lettura, pur rendendomi conto delle opportunità di mercato che l’acquisizione di Bpm o di un analogo gruppo bancario di medie dimensioni potrebbe aprire, continuo a pensare che la strategia più efficace per Unicredit consista nel perseguimento di un modello non tradizionale di attività. Ciò permetterebbe, a Unicredit, di svolgere attività complementari a quelle di ISP e, ai mercati finanziari italiani ed europei, di ispessire segmenti oggi deboli ma essenziali per uno sviluppo sostenibile dell’economia ‘reale’. In tale prospettiva, una volta definito e avviato il nuovo modello di attività, Unicredit potrebbe trovare molto conveniente acquisire o integrarsi con una banca di investimento in senso lato”.

Da un punto di vista sistemico un’eventuale acquisizione/fusione tra Unicredit e Banco Bpm celebrerebbe probabilmente il de profundis del cosiddetto terzo polo bancario nazionale ma accenderebbe la competizione tra due grandi gruppi italiani come Intesa Sanpaolo e Unicredit: a conti fatti per il Paese sarebbero maggiori i vantaggi o i rischi? Non c’è il pericolo che a soffrire sia il tessuto delle piccole e medie imprese?

“La sua domanda solleva almeno tre problemi importanti. Il primo problema riguarda la concorrenza nel mercato bancario italiano. Si potrebbe sostenere che, se Unicredit seguisse (con successo almeno dimensionale) il sentiero di ISP, vi sarebbe più concorrenza fra i due maggiori gruppi bancari nazionali. Non è però affatto detto che il rafforzamento di un sostanziale duopolio, quale quello che ha già caratterizzato la situazione bancaria italiana fino al 2019, implichi una struttura di mercato più efficiente rispetto a quella di un quasi-monopolio messo però sotto pressione da un potenziale concorrente in attività complementari. Al riguardo, pur se in un contesto economico molto diverso da quello del settore bancario italiano (i trasporti) e con un quasi-monopolista già minato da fragilità irreversibili, un’indicazione interessante è offerta dal recente esempio della tratta aerea Roma-Milano: la concorrenza al quasi-monopolista Alitalia è davvero diminuita quando Air-one è scomparsa ma si sono imposti i treni ad alta velocità? Credo che l’evidenza empirica testimoni che il risultato è stato opposto.

Il secondo problema riguarda i vantaggi della costituzione di un terzo polo bancario in Italia. Anche se l’obiettivo è ambizioso, si tratta di un traguardo possibile specie se coinvolgesse gruppi bancari europei già operanti in Italia ma con casa-madre non italiana. Quasi per definizione, questo terzo polo avrebbe un modello tradizionale di attività in quanto frutto dell’aggregazione fra gruppi bancari tradizionali. Per essere efficiente, esso dovrebbe perciò raggiungere sia una consistente dimensione nell’aggregato sia una soglia minima in termini di economie di scala per le ‘fabbriche-prodotto’ verticalmente integrate; condizioni che possono essere soddisfatte solo con adeguati gradi di capitalizzazione. Ciò detto, un terzo polo contribuirebbe a una rilevante apertura concorrenziale del mercato bancario italiano e, specie se si accompagnasse al rafforzamento di Unicredit con un modello non tradizionale di attività, potrebbe arricchire l’offerta di servizi finanziari all’economia ‘reale’”.

E il terzo problema?

“Il terzo problema riguarda il rapporto fra dimensioni bancarie e dimensioni delle imprese mutuatarie. Non credo che, specie in presenza dell’evoluzione tecnologica digitale, tale rapporto richieda una forte omogeneità dimensionale fra mutuanti e mutuatari. Ormai, molte grandi banche europee dispongono di articolazioni organizzative che sono in grado di sfruttare le economie di scala e – al contempo – di adattarsi alle esigenze di una gamma eterogenea di clientela anche sotto l’aspetto dimensionale. Ciò non significa però che, in un quadro del genere, il ruolo delle piccole banche italiane sia destinato a restringersi nel mercato nazionale. Semmai è vero l’opposto: le nostre piccole banche possono trovare spazi crescenti, se si riorganizzano per offrire servizi specialistici che richiedono un certo grado di competenza e che, pur essendo di nicchia, sono essenziali per l’affermazione delle piccole e medie imprese di successo.

Alla luce di quanto detto, non credo che, pur essendo schiacciate sulle piccole e piccolissime dimensioni, le imprese italiane debbano preoccuparsi della costituzione o meno di un terzo polo se non rispetto al fatto che la conseguente configurazione di mercato facilita più efficaci servizi finanziari offerti. Pertanto, l’ultima parte della sua domanda trova risposta nel secondo problema che ho cercato di esaminare”.

L’ipotesi di un’acquisizione/fusione tra Unicredit e la blasonata Mediobanca forse non è del tutto alternativa a un eventuale deal Unicredit-Banco Bpm ma è certamente quella che ha più glamour anche perché avrebbe effetti decisivi sugli assetti di Generali. Ne nascerebbe un grande polo finanziario italiano con un ruolo leader in campo banco-assicurativo in grado di confrontarsi con i giganti stranieri, ma non rischierebbe di soffocare il sistema finanziario italiano?

“Sono consapevole che, svolgendo il ragionamento relativo alla specializzazione non tradizionale di Unicredit, avrei corso il rischio di trovarmi arruolato fra quanti ripropongono il processo di aggregazione fra Unicredit, Mediobanca e Generali. Devo smentire subito induzioni del genere. Non ho, infatti, una sufficiente conoscenza di dettaglio delle realtà menzionate per valutare la fattibilità di un’operazione così complessa; e non mi metterei mai nella posizione di suggeritore attivo di specifiche operazioni nei confronti di un management che, comunque, dispone di molte più informazioni di quante ne possa acquisire uno studioso esterno. Mi limito a ricordare che, nel mercato europeo, vi sono vari operatori che svolgono funzioni proprie a una banca di investimento in senso lato.

Detto tutto ciò, non nego che il disegno di un’aggregazione di lungo termine fra Unicredit, Mediobanca e Generali rivesta un fascino particolare, non fosse altro perché evoca suggestioni passate e ricorrenti che riguardano problemi strutturali e tuttora aperti nel paese. L’unica cosa che mi sento di aggiungere è che una condizione necessaria (anche se non sufficiente) per avviare il disegno di un’operazione del genere è che vi sia una diffusa presenza di azionisti pazienti e con una strategia lungimirante”.

Dopo lo stop alle trattative con Unicredit, per Mps e per l’azionista pubblico i problemi sono più grandi di prima: allungare i tempi della privatizzazione rinegoziando i termini degli accordi con la Ue e ricapitalizzare la banca senese sembrano i primi inevitabili passaggi, ma dopo? Non le pare che le forze politiche e sindacali e l’opinione pubblica non abbiano ancora ben capito che, per non sprecare altri soldi pubblici, una seria ristrutturazione di Mps è inevitabile e che, invece, l’unione delle debolezze del sistema bancario con un matrimonio Mps-Carige-Popolare di Bari sarebbe un errore fatale?

“Concordo che sarebbe un grave errore cercare soluzioni ‘facili’ per Mps. Soluzioni apparentemente ‘facili’ sono, in realtà, impraticabili o foriere di futuri disastri. Ne derivano alcune implicazioni.

Primo: l’unione di tre debolezze, che starebbe alla base dell’operazione da lei evocata (Mps-Carige-Popolare di Bari), partorirebbe un gruppo bancario caratterizzato da profonde inefficienze e destinato a pesare per molti anni sulle finanze pubbliche con oneri ingenti per la collettività. Pertanto, si tratta di una ‘non-soluzione’ che va assolutamente evitata.

Secondo: il tentativo di riprodurre nel tempo, senza radicali discontinuità, l’attuale situazione organizzativa e contabile di Mps produrrebbe analoghi esiti negativi. Oggi, Mps non è in grado di stare in piedi da solo; e, del resto, le istituzioni europee richiedono una significativa ricapitalizzazione che dovrà essere seguita da una ristrutturazione e da riallocazioni proprietarie.

Terzo: come è implicito nell’esame del precedente problema, non può essere riproposta l’illusione, alimentata per tutto il 2016 con dannose conseguenze, che una ricapitalizzazione di mercato di Mps sia praticabile. Il corollario è che sarebbe altrettanto illusorio il tentativo di sostituire Unicredit con un gruppo bancario italiano di medie dimensioni nel ruolo di acquirente dell’attuale Mps.

Un acquirente del genere non avrebbe la forza di assorbire Mps senza compromettere irreversibilmente i propri equilibri. Nel migliore dei casi, si sprecherebbe tempo e si aggraverebbero i problemi della banca senese. Tali considerazioni mi portano a condividere quanto lei dice: l’azionista di maggioranza assoluta si trova, oggi, in una situazione assai complessa da gestire. Il MEF potrebbe allargare il proprio sguardo fino a cercare un acquirente di Mps al di fuori dei confini nazionali. Penso che una soluzione del genere sarebbe ragionevole ma politicamente impraticabile”.

E quindi che prospettive si aprono per il Monte dei Paschi e come dovrebbe muoversi il MEF?


“Per il MEF sarà inevitabile rinegoziare gli impegni assunti con la Commissione europea al fine di ottenere l’autorizzazione e la dilazione temporale necessarie all’effettuazione di una nuova ricapitalizzazione pubblica. È però arduo pensare che, nonostante il forte allentamento delle regole sugli aiuti di stato derivante dalla pandemia, le istituzioni europee accettino una forma di ricapitalizzazione pubblica che ecceda la salvaguardia dell’attuale quota proprietaria del MEF, senza imporre una nuova “ricapitalizzazione precauzionale” (come quella di inizio 2017).
Si è però già detto quanto sia problematico individuare intermediari finanziari italiani pronti a impegnarsi in Mps; e, nel caso, si tratterebbe di sottoscrivere una quota del suo aumento di capitale un po’ maggiore del 33%.

Di conseguenza, il MEF si troverà costretto nella seguente alternativa: introdurre nell’azionariato di Mps attori non italiani (pur se con quote che, almeno all’inizio del processo, saranno di minoranza) oppure accettare la penalizzazione di una parte dei detentori di obbligazioni emesse da Mps. Peccando forse di ottimismo, si supponga che il MEF superi questo percorso ad ostacoli e realizzi un’adeguata ricapitalizzazione entro l’autunno del 2022. A quel punto, i vecchi e nuovi azionisti di Mps dovrebbero iniziare un processo di radicale ristrutturazione della banca così da renderla appetibile per una cessione sul mercato. Anche in tale caso, gli ostacoli sarebbero molteplici e molto rilevanti. Si tratta, quindi, di rassegnarsi al fatto che il destino di Mps è legato a processi lunghi e tortuosi. Da cittadino italiano mi auguro che, alla fine, i conti tornino nel senso che i costi finanziari complessivi dei lunghi processi non superino quelli richiesti dalla transazione con Unicredit”.

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