X

Messori: “Banche, l’intervento pubblico non è un tabù”

“Il Monte dei Paschi di Siena esprime in termini estremi i mali del sistema bancario italiano: alto volume di crediti in sofferenza, scarsa redditività, bassa capitalizzazione. Il piano che si sta mettendo a punto presenta dei passaggi irti di difficoltà a cominciare dal prezzo di cessione delle tranche di prestiti incagliati ad Atlante 2 ed al mercato, con il relativo prestito ponte di JP Morgan, per arrivare all’aumento di capitale di 5 miliardi che appare estremamente difficoltoso a meno di non incentivare gli obbligazionisti a convertire i propri titoli in azioni in maniera ‘volontaria’, cosa che appare piuttosto complessa”.

Marcello Messori è un profondo conoscitore dell’economia italiana e del sistema bancario. E’ professore alla Luiss e dirige la scuola di European Political Economy che ha prodotto negli ultimi anni diversi studi di grande valore scientifico ed anche ricchi di indicazioni pratiche per i decisori politici.  Ecco l’intervista che ha rilasciato a FIRSTonline.

Professore, per MPS si sta quindi percorrendo una strada che rischia di non portare a risultati positivi. Inoltre le polemiche sul ruolo e sui costi di JP Morgan non aiutano a svelenire il clima.

“Effettivamente credo che tra commissioni e garanzie sul prestito-ponte riguardante la terza tranche di Npl, il costo di JP Morgan sia piuttosto elevato. Ma soprattutto preoccupa che, in caso di non successo dell’operazione, il maggior costo si scaricherebbe su Atlante 2 e quindi sulle banche che hanno sottoscritto il suo capitale. In sostanza, il salvataggio di Mps sarebbe pagato dal sistema del credito che ha già per suo conto diversi problemi da fronteggiare. Infatti i punti di crisi sono numerosi, basti pensare alle banche venete o a Carige oltre alla sistemazione delle quattro banche già passate per la procedura di risoluzione”.

Sta quindi dicendo che il sistema bancario italiano è profondamente malato e che intervenire caso per caso non consente di superare le difficoltà? Ci vorrebbe un approccio sistemico, anche se i recenti stress test eseguiti dalla Bce hanno chiarito che, a parte Mps, le altre banche rientrano nei parametri europei e non corrono rischi pur in caso di avverse condizioni economiche come quelle immaginate per fare il test?

“Per chiarire la situazione bisogna fare una analisi di medio periodo e capire quali sono i reali punti di debolezza del nostro sistema bancario ed individuare di conseguenza i giusti rimedi. Le banche italiane non hanno fatto speculazioni finanziarie, ma fino al 2010 hanno erogato un eccesso di credito all’economia, spesso a settori che beneficiavano di rendite di posizione, ed alle piccole imprese che non sono state capaci di adattarsi ai profondi mutamenti intervenuti nell’economia mondiale in seguito alla globalizzazione ed alla rivoluzione tecnologica. Quando la crisi finanziaria ha investito in pieno l’economia reale, le banche, particolarmente esposte, hanno subito il colpo della crisi. Si aggiunga che molte banche erano e sono ancora di dimensioni modeste e basavano il loro business sulle relazioni, spinte in questo anche da una governance spesso opaca, basata sulle Fondazioni o su una rete di rapporti politico-affaristici con il territorio di riferimento. Questa illusione di essere esente dalla crisi ha spinto il nostro sistema a ritardare la riorganizzazione sia degli sportelli, ancora troppo numerosi, che del modello di business, trovandosi ora in una situazione abbastanza delicata”.

Quindi è l’intero sistema bancario italiano che dobbiamo considerare a rischio?

“No, attenzione. Dal punto di vista patrimoniale, a parte i casi prima citati di crisi conclamate, il sistema ha una buona solidità. Il problema è che deve rimanere fermo, come ingessato, perchè è tutto impegnato a smaltire le sofferenze ed a riorganizzarsi, non potendo così dare quell’apporto positivo all’economia del paese che invece è indispensabile per crescere. Volendo essere scolasticamente corretti, la sequenza che il sistema dovrebbe percorrere partirebbe dalla riorganizzazione per incrementare la redditività, per poi passare alla cartolarizzazione degli Npl su un mercato finanziario nel frattempo potenziato anche dal nuovo modello di business delle aziende di credito che dovrebbero passare da prestatori diretti a consulenti per il collocamento di prestiti sul mercato (dovrebbero fare le banche d’investimento), e giungere infine al potenziamento del capitale che potrebbe essere collocato presso gli investitori che vedrebbero chiaramente delle prospettive di guadagno. Ma questa sequenza non è possibile. Richiederebbe troppo tempo e lascerebbe quindi l’economia produttiva a corto di ossigeno per un lungo periodo. La crescita che sarebbe certo un toccasana per tutti, stenterebbe a ripartire”.

Sarebbe quindi indispensabile accorciare al massimo il periodo di risanamento per poter dare all’Italia la possibilità di raggiungere un tasso di crescita almeno pari a quello del resto dell’Europa, che peraltro non è certo brillantissimo. Ma per farlo non c’è che una strada: quella dell’intervento pubblico che a sua volta può essere fatto a direttamente dallo Stato italiano o dall’Europa tramite l’ESM, il fondo europeo che potrebbe ricapitalizzare direttamente le banche senza passare dal nostro bilancio pubblico.

“La situazione di impasse che ho descritto configura, a mio parere, quello che le norme attuali già prevedono come “crisi sistemica” che consentirebbero interventi pubblici senza far scattare le attuali normative di risoluzione e quindi il bail-in. Naturalmente si tratta di un percorso ad ostacoli, non privo ovviamente di costi politici. Se si fa da soli occorrerebbe dimostrare a Bruxelles la solidità del nostro bilancio pubblico e del debito e quindi accelerare sia la politica di riforme sia i tagli alla spesa pubblica, andando a colpire senza tentennamenti le tante posizioni di rendita che caratterizzano la nostra società. Mentre, se si intende far ricorso all’ESM, bisognerebbe sottoscrivere un memorandum che impegnerebbe il nostro Governo a seguire una politica di risanamento molto vincolante. Certo il rigore sarebbe tanto minore quanto più riforme ben mirate ed incisive potranno liberare risorse ed energie per accelerare il tasso di crescita. Ma per farlo, dobbiamo aumentare la produttività di tutto il sistema, spingere l’innovazione tecnologica ed organizzativa. Quest’ultima comporterebbe un passaggio di molti lavoratori da settori obsoleti verso settori a più alto potenziale di crescita e quindi, per evitare di accentuare il malessere sociale, bisognerebbe avere un welfare diverso da quello attuale, centri dell’ impiego che funzionano come canali di ricollocamento, e relazioni industriali più moderne che avvicinino il lavoratore ai risultati dell’azienda”.

Un programma complesso e non facile da attuare, specie in un paese come l’attuale basato sulla sovrapposizione dei poteri, tutti dotati dalla facoltà di mettere veti. Per questo è stato indispensabile cominciare dalle riforme costituzionali per cercare di dare più stabilità ai governi e più efficienza alla macchina politico-amministrativa.

“Diceva il mio maestro Claudio Napoleoni che il nostro è un paese basato sulle rendite di posizione (grandi o piccole che siano) e che è difficile trovare il consenso per fare quei cambiamenti che pure, accelerando il tasso di crescita, alla fine gioverebbero a tutti. Per questo credo che il referendum sia importante, ma dobbiamo anche tener presente che quelle condizioni favorevoli che si sono presentate due anni fa (bassi tassi d’interesse, svalutazione dell’ Euro, crollo del prezzo del petrolio) non sono destinate a durare in eterno: massimo abbiamo ancora un anno, un anno e mezzo, e non possiamo sprecare quest’ultima finestra di opportunità. Dobbiamo chiarire bene a noi stessi ed al resto del mondo le nostre priorità. Verso l’Europa, ad esempio non possiamo continuare a chiedere un pò di tutto e disperdere le nostre forze in mille rivoli. Dobbiamo essere credibili per puntare forte su poche grandi cose. Tra queste metterei la questione del definitivo risanamento del sistema bancario, che del resto è anche un problema complessivo dell’Europa, come ha sottolineato il FMI, e soprattutto su un piano più robusto di investimenti europei. Il piano Juncker è stato un successo. L’Italia ha ottenuto circa 70 miliardi. Bisognerà moltiplicarlo per due o per tre e poi trovare delle modalità di finanziamento innovative. Nostro compito casalingo è quello di incrementare la produttività, spingendo sull’innovazione e nello stesso tempo tenere sotto controllo la spesa pubblica con una riduzione delle rendite”.

L’economia italiana è stata quella che, tra i paesi occidentali, si è dimostrata meno pronta ad adattarsi ai grandi cambiamenti di scenario dei mercati internazionali. Abbiamo delle imprese di eccellenza ma da sole non riescono a trasmettere l’innovazione a tutto il resto del sistema. I cambiamenti organizzativi sono quelli più difficili da attuare, ma da questo sentiero dobbiamo passare.

“La nostra crescita si è fermata da almeno due decenni. Ora abbiamo di fronte poco tempo. Non possiamo illuderci che esista una sola leva per farci uscire dalla stagnazione. Condivido la tesi di chi sostiene che un grande e ricco continente come l’Europa non può basare il suo sviluppo solo sulle esportazioni. Tuttavia per paesi come l’Italia una politica keynesiana basata sull’espansione del deficit rischierebbe di finanziare ancora solo le rendite e non intaccherebbe quegli ostacoli che, come abbiamo visto sopra, sono la vera palla al piede del paese. Siamo chiamati a fare molte cose insieme. Dobbiamo accelerare il passo. Ma se facciamo una diagnosi corretta dei nostri problemi, potremo trovare rimedi efficaci”.

Related Post
Categories: Interviste