Non basterà di certo il decreto anti-scarcerazioni, approvato ieri sera dal Consiglio dei ministri, a risolvere i guai del Governo sulla giustizia e a chiudere lo spinoso caso Bonafede. Non basterà perchè sul capo del traballante ministro grillino della Giustizia, Alfonso Bonafede – l’uomo che introdusse l’allora sconosciuto professor Giuseppe Conte nel mondo grillino – pende la mozione di sfiducia presentata compattamente dall’opposizione di destra dopo le accuse del magistrato Nino Di Matteo al ministro per le sue capriole sulla gestione delle carceri e le sue presunte ambiguità nei confronti dei boss mafiosi. E non basterà perchè Italia Viva di Matteo Renzi ha detto chiaro e tondo al premier che per sottoscrivere un nuovo patto di governo pretende, tra le altre cose, l’impegno di Conte a riscrivere le norme sulla prescrizione, tanto care a Bonafede e ai Cinque Stelle.
Ma quella della giustizia non è l’unica spina che i grillini hanno infilato nel fianco del Presidente del Consiglio da loro stessi espresso. Le altre mine vaganti non sono meno grosse e tengono sulla corda il Governo e il Presidente del Consiglio.
Resta così aperta la querelle sulla sanatoria dei migranti che spacca verticalmente il Governo e mette i Cinque Stelle contro tutti. Regolarizzare i migranti che servono all’agricoltura e che spesso vivono in veri e propri ghetti alla mercè dei caporali non è solo un atto di civiltà ma un’esigenza imposta sia dalla necessità di non mandare alla malora il raccolto di un’intera stagione agricola per mancanza di personale nei campi sia dall’emergenza sanitaria che impone di bonificare al più presto tutti i potenziali focolai di contagio. Se ne è reso conto anche il premier che ha dato ragione ai renziani e alla combattiva ministra dell’Agricoltura, Teresa Bellanova, appoggiata stavolta anche dal Pd. Ma per sbloccare la sanatoria prima che sia tardi e che il raccolto nei campi vada perduto bisogna fare in fretta e bisogna che Conte trovi il coraggio di convincere i grillini a tornare sui loro passi, anche a costo di dimenticare le sirene leghiste.
Ma è soprattutto sul Mes -oltre che sull’intera strategia di rilancio economico – che il premier corre i maggiori pericoli di uscire di strada, anche perchè quando se ne parlerà alle Camere Conte non potrà più arrampicarsi sugli specchi e dovrà dire se il Governo intenda utilizzare – come raccomandano Pd, Italia Viva e perfino Berlusconi – i 36 miliardi per la sanità che l’Europa ci mette a disposizione o rifiutarli come propongono i Cinque Stelle per ragioni assurdamente ideologiche che ancora una volta li avvicinano ai sovranisti della Lega.
Come farebbe il premier a spiegare agli altri leader europei e soprattutto agli italiani, chiamati a fare non pochi sacrifici, che il Governo si appresta a rinunciare a 36 miliardi di euro per affrontare l’emergenza sanitaria sarebbe davvero tutto da vedere. Ma sul Mes e più in generale sui rapporti con l’Europa Conte raccoglie i frutti di un’ambiguità a lungo coltivata per assecondare i suoi sponsor grillini. Prima o poi però l’ora della verità arriva e Conte lo sa. Come sa che il desiderio di cambiare cavallo a Palazzo Chigi cova in varia misura in tutti i suoi alleati di governo e che ciò che oggi appare impossibile per l’emergenza sanitaria non è detto che lo sia anche fra qualche mese.