Il 15 Giugno Maurizio Ferrera ha pubblicato sul Corriere della Sera un editoriale in cui si evidenzia che la fuoruscita dalla grande crisi iniziata nel 2008 si integra con l’ingresso dell’economia nella fase 4.0 e che la digitalizzazione nella manifattura, nel commercio, nei servizi all’impresa e alla persona produrrà una mezza rivoluzione nel Mercato del Lavoro. “Il lavoro certo non sparirà, ma – argomenta Ferrera – diventerà sempre più fluido, le mansioni di routine si contrarranno rapidamente e i vari settori produttivi saranno esposti a veri e propri effetti «marea»: espansioni repentine seguite da contrazioni, non interamente prevedibili”. “Per gestire queste dinamiche in modo inclusivo occorre riorganizzare la solidarietà sociale”.
Inoltre: “oggi i sistemi di tutela sono incentrati su sussidi accompagnati da politiche attive per riportare le persone al lavoro aiutandole nel frattempo. La rapidità dei mutamenti in atto richiede però di introdurre altri strumenti, di natura preventiva e che sostengano, proteggano e aumentino la capacità dei lavoratori di reinserirsi in un contesto strutturalmente mutevole. E’ la cosiddetta “occupabilità” di cui si parla da circa un ventennio”. Ferrera dice che in molti paesi europei essa è stata declinata in forme concrete di aiuto: “i Paesi scandinavi stanno sperimentando sistemi di smistamento intersettoriale e interprofessionale dei lavoratori per far fronte agli effetti marea. In Olanda e Germania (ma anche in Canada e Australia) i lavoratori effettuano test periodici di “occupabilità”, che consentono loro di accertare lo stato delle proprie competenze”.
Da noi la cosa che più si avvicina a questo modello è la Formazione Continua, che istituzionalmente è gestita dalle Regioni (tramite le quote inoptate dello 0,30%) e dai Fondi Interprofessionali tramite lo 0,30% che le singole aziende scelgono di versare. In generale sia la Formazione Continua Regionale che quella dei Fondi finanziano progetti formativi presentati dalle singole imprese per i propri dipendenti. D’altra parte si finanziano progetti presentati da aziende e/o Enti sulla base di Avvisi che enunciano il target della formazione: ad esempio innovazione, prevenzione, ecc.
Il comun denominatore di questo tipo di formazione risale all’accordo CGIL CISL UIL Confindustria del 1993, che immaginava (nella realtà di allora giustamente) la formazione continua come uno strumento di riqualificazione dei dipendenti, desiderabile sia per il dipendente che per l’azienda ma comunque del tutto funzionale a implementare la prestazione professionale del lavoratore all’interno della organizzazione del lavoro. L’acquisizione di nuove capacità da parte del lavoratore veniva molto più considerata ai fini di uno sviluppo di carriera (passaggio di categoria) che ad un’eventuale spendibilità sul Mercato del Lavoro. Se Ferrera ha ragione, pur senza abbandonare questo filone, diciamo così, manutentivo, occorrerà dar vita ad una formazione che abbia come obiettivo la trasmissione di skills che siano più trasversali e orientati alle competenze digitali, e quindi spendibili sul mercato del lavoro.
Questa operazione, che è una sorta di assicurazione sociale contro la disoccupazione, non può certo essere scaricata sulle spalle delle imprese né dello Stato, sia per quanto concerne i costi sia per la definizione dei target e delle modalità formative. E’ invece necessario che la formazione di cui parliamo sia radicata in una conoscenza del Marcato del Lavoro e del suo mutamento che oggi non appartengono a nessun soggetto pubblico, ma che è ricostruibile nell’ambito della bilateralità tra le Parti Sociali. Mi riferisco soprattutto ai Fondi Interprofessionali, che possono mobilitare la cognizione del rapporto domanda-offerta basata sull’esperienza delle parti sociali e le competenze di merito dei migliori Enti Formativi e delle Università.
Naturalmente assumere questa competenza implica allargare significativamente la mission dei Fondi, ma è in questa modalità che, nel modo più lineare e coerente con il loro core business, essi possono fare Politiche Attive, come da più parti si sollecita. Però sono necessari tre passaggi obbligati, politici e normativi:
– riconoscere alla Formazione Permanente finalizzata alla occupabilità lo status di Politica Attiva al pari del Ricollocamento
– incrementare il finanziamento dei Fondi a fronte della nuova mission: potrebbe a questo scopo essere destinato lo 0,30% (o parte di esso) prima versato dalle Aziende per l’indennità di Mobilità e la quota di 0,30% inoptato che oggi utilizzano le Regioni per bandi di Formazione Continua. Il che non significa espropriare le Regioni, ma creare reti integrate tra Regioni e Fondi Interprofessionali che superino le episodiche e francamente non soddisfacenti esperienze di “Avvisi Comuni” finora registrate
– naturalmente tutto ciò implica, oltre ad una modifica della normativa che regola l’attività dei Fondi ( e che tra l’altro renderebbe un po’ più fondata la pretesa che i Fondi operino con le regole dei soggetti pubblici), anche un riesame delle reale consistenza, rappresentatività e affidabilità dei vari Fondi, magari assumendo il criterio della loro riconducibilità alle Organizzazioni Datoriali e Sindacali maggiormente rappresentative, in attesa di una legge sulla rappresentatività delle Associazioni.
Le difficoltà di realizzare questa prospettiva non si possono sottovalutare, ma ci sembra l’unica capace di mettere in gioco risorse sia pubbliche che provate, mettere in campo le conoscenze e le competenze delle Parti Sociali, degli Operatori e delle Università senza mettere in piedi un qualche inutile, costoso e pachidermico carrozzone pubblico.