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Mercati tra dazi e tecnologie: chi vince e chi perde

ImagoEconomica

Chi muove guerra a qualcuno è sempre convinto di poter vincere, altrimenti se ne starebbe calmo e penserebbe semmai a difendersi. Alla resa dei conti, tuttavia, capita spesso che chi muove guerra finisca sconfitto. È evidente, in questi casi, la sopravvalutazione delle proprie forze e la sottovalutazione di quelle dell’avversario.

Se il calcolo delle forze in campo si rivela ex post frequentemente sbagliato è perché viene effettuato quasi esclusivamente sul fronte esterno. Se si hanno più uomini, carri armati e aerei del nemico, se si hanno una tecnica di combattimento migliore e un terreno di scontro favorevole, altamente probabile. Raramente si tiene conto del fronte interno ed è qui, la maggior parte delle volte, che casca l’asino.

La guerra franco-prussiana del 1870-71, i due conflitti mondiali, la guerra fredda e la guerra del Vietnam sono stati persi dagli attaccanti per un calcolo sbagliato sulla tenuta dei fronti interni, il proprio, quello avversario e quello dei paesi terzi.

Napoleone III mosse guerra alla Germania cavalcando l’ondata nazionalista, ma alle prime difficoltà il suo fronte interno si sfaldò e la Francia, con la Comune di Parigi, precipitò nella guerra civile. Nella prima guerra mondiale la Germania sottovalutò il fronte interno americano, ritenuto isolazionista a oltranza, e fu gravemente indebolita dal pacifismo rivoluzionario interno. Nella seconda guerra mondiale il fronte interno tedesco tenne fino all’ultimo, ma la Germania sottovalutò di nuovo il fronte interno americano e la sua disponibilità a tornare a combattere in Europa, non comprese l’incredibile tenuta del fronte interno russo e sopravvalutò la tenuta interna dell’alleato fascista.

La guerra del Vietnam fu persa dall’America attaccante tanto sul fronte interno quanto per una sottovalutazione della tenuta del fronte interno nordvietnamita. Il blocco sovietico iniziò a collassare, dopo una lunga fase di espansione nel Terzo Mondo, quando il consenso interno all’occupazione dell’Afghanistan venne meno.

Quando Trump ha deciso di muovere i primi passi di una guerra commerciale alla Cina il tweet di annuncio ha tenuto a presentarla come destinata a una vittoria facile e sicura. Come esportatori netti hanno da perdere molto più di noi, ha scritto. Questo, in termini economici, è assolutamente vero, ma equivale a un’analisi del solo fronte esterno. Quanto al fronte interno, Trump ha pensato di rafforzare i suoi consensi negli stati manifatturieri del Midwest e in effetti, stando ai sondaggi, la sua popolarità è migliorata e ha raggiunto quella di Trump potrebbe però avere commesso tre errori di valutazione, di cui due sui rispettivi fronti interni.

Il primo è che in un conflitto non esce necessariamente vincitore chi ha meno da perdere ma chi è più disposto a perdere quello che ha, anche se è tanto. E qui la Cina, paese autoritario, parte molto avvantaggiata. Mentri gli importatori americani di acciaio o tecnologia cinese si sono subito stracciati le vesti all’annuncio dei dazi di Trump e mentre la Cnbc ha presentato mercoledì un ribasso di borsa dell’uno per cento come un drammatico esempio del danno che il protezionismo sta già facendo all’America, in Cina nessuna associazione di importatori di soia o di allevatori di maiali si è levata a criticare i dazi cinesi sui prodotti americani e tutti gli organi di informazione e i blog si sono stretti intorno al governo.

Il secondo è che la Cina non è il Giappone degli anni Ottanta e Novanta, un paese che si lasciò strapazzare commercialmente dagli Stati Uniti nel nome di un’alleanza politica e militare. La Cina è perfettamente consapevole dalla sua forza, esibisce in tutti i modi la sua volontà di superare tecnologicamente (e quindi militarmente) gli Stati Uniti e ha un fronte interno che, quanto meno ufficialmente, è pronto a uno scontro duro.

Il terzo è che la Cina è stata perfidamente mirata nella sua risposta a Trump. I dazi sui prodotti agricoli colpiscono stati agricoli tutti trumpiani. I dazi sulle auto americane non colpiscono Detroit, che alla Cina non fa nessuna paura, ma Tesla, che a una Cina che vuole diventare rapidamente leader globale nelle auto elettriche dà fastidio. I dazi sugli aerei, per ora quelli piccoli, accelerano la corsa cinese a diventare produttore mondiale di aerei accanto a Boeing e Airbus.

È ancora presto per dire come evolverà il conflitto commerciale con la Cina, ma dai primi segnali appare che Trump e Xi, uomini pragmatici, si tengano pronti a frenare l’escalation. La Cina concederà qualcosa sulla proprietà intellettuale, l’America renderà più difficile l’esportazione di tecnologia e qualche dazio rimarrà qua e là. Meglio che niente per Trump, meglio di una guerra conclamata per Xi. E in più, per calmare i mercati, Trump accelererà al massimo la conclusione dei negoziati con Canada e Messico per il nuovo Nafta.

Se così sarà, si tratterà di un successo tattico per gli Stati Uniti, ma il problema strategico dello squilibrio tra la crescita tecnologica americana e quella cinese resterà intatto. Da una parte la Cina intende diventare leader globale nell’intelligenza artificiale entro il 2025 e sta aprendo alla periferia di Pechino un grande polo interamente dedicato al settore. Sono evidenti, qui, le implicazioni militari e quelle legate alla sicurezza interna. E perché sia chiaro chi comanda, il governo acquista quote e il partito comunista acquisisce seggi nei consigli d’amministrazione delle società tecnologiche.

Dall’altra parte negli Stati Uniti è in corso un conflitto civile sempre più aspro (ancora una volta risulta decisivo il fronte interno) sulla questione dello strapotere di Silicon Valley. La nuova tecnologia (soprattutto la sua componente pop) è fieramente politicizzata e usa aggressivamente le sue piattaforme, dai social network alla stampa controllata, per esercitare influenza politica e fare passare i suoi valori, dalle frontiere aperte al salario di cittadinanza pagato dalla fiscalità generale (cui ben poco contribuisce). Le nuove grandi piattaforme commerciali on line, dal canto loro, assumuno sempre di più un profilo di monopsonio e di monopolio. A questo punto la nuova tecnologia si ritrova all’improvviso politicamente isolata, viene attaccata non solo dai tweet quotidiani di Trump ma anche dalla sinistra radicale, dalla distribuzione grande e piccola e da un numero crescente di piccole imprese che si trovano declassate a semplici fornitori delle piattaforme commerciali. È facile pensare che, alla prossima recessione, questo settore sarà al centro degli attacchi populisti di ogni provenienza (anche di establishment) e verrà tassato, regolato e multato esattamente come capitò alle banche dopo il 2008.

L’Europa, dal canto suo, risulta non pervenuta. La Commissione europea ha appena stanziato un’elemosina di 50 milioni per sostenere l’intelligenza artificiale e ha pubblicato 14 paginette di strategia, di cui 12 dedicate a come combattere l’attacco dell’intelligenza artificiale alle libertà civili. Macron, avendo capito che dall’Europa non verrà fuori niente, ha commissionato al matematico macroniano Cédric Villani un piano francese piuttosto articolato e ci investirà un miliardo e mezzo, una cifra dignitosa che però scompare di fronte agli stanziamenti cinesi.

Nella correzione dei mercati (verso il basso le borse, verso l’alto i bond) si sono intrecciati i timori di guerra commerciale, la riconsiderazione della tecnologia come settore leader e la percezione di un rallentamento della crescita da una parte e dell’inflazione dall’altra.

I timori di guerra commerciale ci sembrano decisamente eccessivi, se non altro per i tempi lenti (sei mesi) che avrà l’eventuale entrata in vigore delle misure in discussione.

La riconsiderazione della tecnologia come settore leader ha senso in una fase matura del rialzo azionario in cui il comparto value tende a tornare più interessante. Nella tecnologia, tuttavia, bisogna distinguere. Un conto è la tecnologia pop, fatta in realtà da società che vendono pubblicità, film, e informazioni sulle abitudini dei loro clienti. Questo comparto, che ha multipli altissimi, rimbalzerà quando sarà terminata la correzione in corso, ma sarà strategicamente da alleggerire per i motivi che abbiamo visto e per la crisi in cui stanno entrando alcuni dei suoi modelli di business.

La tecnologia dura, soprattutto se dotata di implicazioni militari, andrà invece mantenuta, sia per i suoi multipli più ragionevoli, sia per le prospettive di crescita.

Gli alti e bassi di inflazione e tassi vanno letti alla luce dell’entusiasmo legato all’improvvisa conclusione positiva, in dicembre, della faticosa riforma fiscale americana. Per qualche settimana le imprese, euforiche, hanno allentato i tradizionali freni inibitori, hanno accelerato i programmi di assuzione e concesso più aumenti retributivi, compensando il tutto con aumenti dei listini prezzi per i loro clienti. Questa fase spensierata, complice anche la correzione di borsa, si è rapidamente conclusa e l’inflazione è tornata più calma.

Al di là di queste increspature, tuttavia, il quadro di fondo rimane quello di un rialzo dell’inflazione americana sopra il due e mezzo per cento nel corso dei prossimi sei mesi. Una volta smaltito l’eccesso di posizioni al ribasso sui bond, questi riprenderanno a scendere di prezzo, anche se non drammaticamente. Le borse, dal canto loro, faranno fatica a tornare sui massimi di gennaio. Se lo faranno, saranno da alleggerire.

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