Tra le tante prove che siamo in un clima profondamente diverso rispetto all’anno scorso c’è il fatto che si parla molto meno del futuro. Dove sono finiti il tramonto dei combustibili fossili, la crisi finale della grande distribuzione, l’internet delle cose, l’auto elettrica che si guida da sola, le stampanti 3D e l’uso e abuso del concetto di disruption per indicare rivoluzioni tecnologiche così radicali da comportare la chiusura imminente di interi settori produttivi e la sopravvivenza limitata a pochi audaci innovatori?
Questo 2018, che pure include un gennaio che ha portato al suo punto più alto lo spirito del 2017, celebra i fasti del vecchio e inquinante petrolio, della moribonda grande distribuzione (con titoli come Macy’s in rialzo del 20 per cento), del dollaro sul viale del tramonto, dell’indice delle materie prime (molte delle quali in uso fin dal Neolitico). Quanto invece agli innovatori, con la vistosa eccezione di Amazon, il clima è di diffuso scetticismo. Chi centra gli obiettivi o li supera non viene degnato di attenzione, chi li manca viene punito con severità.
La rotazione dal futuro al passato è tipica dei bear market. Lo scoppio della bolla di Internet, nel 2000, si accompagnò a un rialzo dei titoli delle materie prime. Il 2008 fu diverso, perché la bolla che era stata creata negli anni precedenti era stata su un classico settore della vecchia economia, le case. Questa volta si ritorna alla tradizione.
Che la correzione avvenga anche attraverso rotazione è positivo, perché una parte rilevante del mercato è investita oggi in prodotti indicizzati. Gli incidenti che si produssero nei ribassi del 2000 e del 2008, quando la finanza che si era sbilanciata troppo sulla tecnologia e sulle case fece da moltiplicatore della crisi, non dovrebbero prodursi questa volta.
E’ poi ancora più positivo che la correzione dei mercati coincida con un’esplosione degli utili in America e con un loro comportamento nel complesso buono nel resto del mondo. Attenzione, gli utili in crescita non sono una garanzia di rialzo per le borse (nel 1987 salirono del 37 per cento e Wall Street si produsse lo stesso in un crash memorabile), ma producono una correzione più veloce dei multipli, che hanno così modo di riportarsi su livelli più sostenibili (e più consoni ai tassi più alti) senza che questo comporti un sacrificio eccessivo delle quotazioni.
Degli ingredienti che possono fare pensare a una correzione in via di conclusione ne manca solo uno, ovvero la riduzione significativa delle posizioni. In pratica abbiamo oggi aspettative più sobrie e perfino un leggero velo di pessimismo incipiente, ma non abbiamo ancora un posizionamento così leggero da rendere necessaria una corsa agli acquisti nel caso il mercato si giri verso l’alto. In mancanza di capitolazione (ovvero di un’ultima ondata di paura improvvisa e profonda) un recupero nei prossimi tre-quattro mesi sarà possibile lo stesso, ma sarà faticoso e asfittico.
Tornando agli aspetti positivi, consideriamo tale, per certi aspetti, il concentrarsi dell’attenzione sulla recessione prossima ventura. Questa volta non c’è la corsa a predire il quando, ma quella, più umile, a dotarsi di modelli che indichino le probabilità di crescita negativa nei prossimi 12-24 mesi. Al momento, benché in rialzo, queste probabilità non sono molto elevate, ma va ricordato che anche 12 mesi prima del 2000 e del 2008 non lo erano. Quello che consideriamo positivo non è quindi il valore predittivo di questi modelli, ma il fatto che la loro stessa esistenza ci ricorda la mortalità del ciclo economico e ci induce a comportamenti più prudenti.
Detto questo, si può ragionevolmente ipotizzare che la prossima fase (da qui all’inizio dell’autunno) sarà meno stressante di quella che stiamo per lasciarci alle spalle.
Il primo elemento che lo fa pensare è il dollaro, che ha ritrovato una parte della forza perduta. Il dollaro più forte (che nel prossimo periodo continuerà a essere sostenuto dalla chiusura graduale della grande quantità di posizioni tuttora al ribasso) modera l’inflazione americana nel momento in cui l’effetto base la amplifica (l’effetto base, in questo caso, è l’inflazione particolarmente bassa di un anno fa a quest’epoca, che fa sembrare ancora più alta l’inflazione attuale anno su anno).
A sua volta l’inflazione mantenuta sotto controllo (per quanto in rialzo) modera il ribasso dei corsi obbligazionari, che hanno perso abbastanza terreno da poter fare pensare che i prossimi mesi saranno più laterali che di ulteriore ribasso.
Su questo tema fa piacere vedere, con Powell, una Fed meno nevrotica rispetto alle gestioni precedenti. Parlando poco, senza mai alzare i toni e, soprattutto, evitando di allarmarsi e correre in soccorso ogni volta che il mercato fa i capricci, questa Fed dà prova di forza e di fiducia nel suo programma, rieducando al tempo stesso il mercato a camminare con le sue gambe.
Una volta stabilizzati dollaro, inflazione e bond anche il mercato azionario avrà più spazio per celebrare gli utili che, a consuntivo del primo trimestre, risultano in America, nel complesso, ancora migliori delle più rosee previsioni.
In pratica, è ben vero che i portafogli medi, in tutto il mondo, hanno perso un po’ di valore rispetto all’inizio dell’anno (in qualsiasi valuta siano denominati) ma è anche vero che i valori sono oggi più equilibrati. A nessuno piace vedere il segno meno nelle performance di periodo, ma bisogna imparare a pesare e valutare non solo il risultato assoluto di un portafoglio, ma anche e soprattutto la sua solidità o la sua vulnerabilità.
La correzione in corso ha creato danni seri solo in porzioni molto circoscritte del mercato, quelle legate alla vendita di volatilità. Per il resto la correzione è stata ben distribuita e razionale. L’alternativa sarebbe stata molto pericolosa. Proseguire il rialzo di gennaio fino ad oggi avrebbe portato a un maggio di realizzi e, sul copione del 1987, a un autunno di crash. Non lamentiamoci troppo.