Ogni giorno è una debacle, commenta amaro Les Echos. La testata francese sintetizza così l’amarezza degli investitori per l’effetto domino che sta colpendo i Paesi emergenti, le nuove promesse dell’economia che oggi sembrano dover scontare più di un problema. Il clima di delusione, che serpeggia ormai da tempo, è fatto di contraddizioni: oggi, nello stesso giorno in cui tutti gli indici degli emergenti sono positiv, il Fondo Monetario Internazionale dichiara che le economie emergenti sono troppo vulnerabili, a causa del restringimento delle condizioni della politica monetaria Usa.
Lo spettro degli anni Novanta – scanditi dalle crisi messicana, asiatica, russa e latinoamericana – si aggira per i mercati di tutto il mondo. Gli investitori, attirati dai rendimenti elevati degli ultimi anni, sono ora in fuga. I capitali in uscita dalle nazioni in via di industrializzazione stanno eguagliando i 30 miliardi di dollari arrivati dopo l’estate del 2012. Dall’inizio dell’anno, le Borse degli emergenti hanno perso complessivamente più del 13 per cento, secondo gli indici MSCI, mentre quelle delle vecchie (per alcuni a tratti vetuste) potenze economiche hanno guadagnato 11 punti. La Borsa di Bombay è crollata del 25 per cento, quella di San Paolo di circa il 28, quella di Istanbul del 27. E in caduta libera sono finite anche le valute, rupia indiana in testa.
Dopo gli annunci della Federal Reserve americana, che ha intenzione di ridurre le sue iniezioni di liquidità, la crisi siriana ha dato il colpo di grazia. La prospettiva di un intervento occidentale a Damasco e dell’instabilità nella regione aumenta troppo il rischio e comporta di fatto un rientro dei capitali verso lidi più sicuri. Uno shock che molti Paesi – in particolare India e Turchia – potrebbero non essere in grado di affrontare per mancanza di mezzi.
Il problema è la fragilità delle economie emergenti. “Stiamo vedendo le illusioni che ci eravamo fatti andare in frantumi”, commenta a Les Echos Bruno Cavalier, capo economista presso Oddo Securities. “A forza di prestare attenzione alle difficoltà dell’Europa e degli Stati Uniti – continua Cavalier – gli investitori hanno dimenticato le criticità dei Paesi emergenti. Questi sono rimasti dipendenti dalla domanda delle economie sviluppate e non hanno mai riformato il loro modello di crescita”.
Il risveglio è stato doloroso. “Le economie brasiliana e indiana hanno degli handicap strutturali talmente radicati che è difficile capire perché gli investitori si siano entusiasmati così tanto negli ultimi anni”, commenta il fund manager Stephen Gen. Secondo l’esperto, se una crisi dei cambi colpirà gli emergenti, rupia e real rischieranno di far la fine del bah thailandese, crollato con la grande crisi finanziaria asiatica del 1997.
Tuttavia, non sembrano ancora esserci tutti gli ingredienti per una crisi tipo quella degli anni Novanta. “Oggi molti Paesi emergenti hanno tassi di cambio fluttuanti – spiega Cavalier alla testata francese – quindi non sono costretti a difendere a tutti i costi il valore della loro moneta, come in passato. Inoltre, il loro debito estero è calato negli ultimi anni e questo riduce il rischio insolvibilità legato al crollo delle valute”.
Per risalire – o almeno per provare a farlo – i mercati emergenti dovranno ristabilire la loro credibilità e portare avanti le riforme che li avevano spinti negli anni del boom, segnati da liquidità più che abbondante. Nel farlo, conclude Les Echos, dovranno fare affidamento alle loro banche centrali, già molto attive, e non aspettarsi nulla dalla Fed.