Nulla come le decisioni di questa settimana di Fed e Bce segnano la novità del nuovo mondo all’insegna della divergenza: per la prima volta dopo molti anni le due banche centrali hanno espresso pareri diversi e hanno preso decisioni diverse sui tassi, ma dovremo abituarci ad altri andamenti divergenti: il rafforzamento del dollaro rispetto alle altre valute, le bilance commerciali che si divideranno sotto il peso dei dazi che Trump vuole imporre, le economie di qua e di là dell’Atlantco destinate a stare su due piatti disallineati della bilancia. Il week end sarà decisivo quando Trump lancerà la sua bomba lungo le traiettorie commerciali. Sempre che gli convenga davvero: innescherebbe quanto meno un riscaldamento dell’inflazione a cui la Fed dovrà rispondere con un aumento dei tassi. Esattamente il contrario che vuole il tycoon. Intanto l’incertezza e la paura per l’inflazione sono così alte che gli investitori tornano a rifugiarsi nell’oro che sgna nuovi massimi.
Bce e Fed: ognuno per la sua strada. Ma Trump “pretendeva” altro
Le prime riunioni delle banche centrali del 2025 lasciano intendere che sarà un anno in cui i decisori politici seguiranno la propria strada, mentre i percorsi economici divergeranno: gli Stati Uniti manterranno stabili i tassi di interesse, la zona euro taglierà i tassi e il Giappone, paese anomalo, sarà saldamente in modalità rialzo. Si tratta di un cambiamento rispetto allo scorso anno, quando il consenso globale era a favore di cauti tagli dei tassi, con sette delle 10 principali banche centrali dei mercati sviluppati del mondo che hanno allentato la politica monetaria.
Dalle parole di Powell e Lagarde si vede la diversa intonazione. “Riteniamo che la situazione sia davvero positiva per la politica e per l’economia, e quindi non riteniamo di dover avere fretta di apportare modifiche”, ha detto Powell ai giornalisti dopo che la Fed ha deciso di mantenere i tassi invariati. Per i tassi di interesse europei, ha detto invece Lagarde dopo che il Consiglio direttivo della Bce che ha deciso per un taglio di altro quarto di punto “sappiamo che la direzione del viaggio” sarà più verso il basso, “A quale ritmo, in quale sequenza, in quale entità, saranno i dati che raccoglieremo a informarci”. La prossima decisione toccherà alla Bank of England, che dovrebbe abbassare i tassi giovedì prossimo, con la possibilità che possa procedere a un ritmo di tagli più rapido di quanto attualmente previsto.
Powell non ha nessuna fretta di passare alla mossa successiva: le sue risposte alle domande dei giornalisti di mercoledì erano condite dalle frasi come “aspettare e vedere”, “in attesa di vedere”, “in attesa”, “non ho fretta” e “osserveremo pazientemente”. Ma non era certo questo il risultato che Trump aveva detto di “pretendere” la settimana scorsa dal capo della Fed, da lui nominato nel suo primo mandato, con cui si era inasprito per le divergenze sulla politica dei tassi e che ambirebbe sostituire quando l’attuale mandato quadriennale di Powell terminerà nel maggio del 2026. “Pretenderò che i tassi di interesse scendano immediatamente. E allo stesso modo, dovrebbero scendere in tutto il mondo”, ha detto Trump in un video al World Economic Forum di Davos.
La differenza di tono tra la Fed e le altre banche centrali è il frutto del diverso percorso intrapreso dall’economia statunitense, quando il mondo stava uscendo dalla crisi pandemica nel 2020. L’elevata inflazione era un fenomeno globale in quel momento, viste anche le intricate catene di approvvigionamento, e le banche centrali hanno lanciato una risposta uniforme con rapidi aumenti dei tassi nel tentativo di controllarla. Ma le cause dell’aumento dei prezzi sono diverse: l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel 2022 ha portato una maggiore inflazione dei prezzi dell’energia nella zona euro, mentre negli Stati Uniti una spesa fiscale più aggressiva ha creato aumenti dei prezzi dovuti alla domanda. L’inflazione è poi scesa in generale, ma in contesti diversi: negli Stati Uniti ciò è avvenuto con l’economia che ha mantenuto una crescita economica superiore al trend, mentre l’Europa è stata alle porte della recessione.
Dazi: la conferma su Canada e Messico. E poi ci sarebbero i Brics, l’Europa e la Cina. O no?
Ma è l’imposizione dei dazi da parte di Trump, o almeno la promessa di volerlo fare, la vera spada di Damocle che pende sui mercati, i quali si trovano quindi nell’incertezza totale e cercano di prendere, per quanto possibile, qualche contromisura. Dazi che per altro spingerebbero ulteriormente al rialzo il dollaro, schiaccerebbero le economie a cui verrebbero imposti e in ogni caso crerebbero inflazione, che alla fine dovrebbe essere contenuta da rialzi dei tassi da parte delle banche centrali. Prima del suo insediamento, pareva che stesse considerando la possibilità di dichiarare un’emergenza economica nazionale per consentire l’applicazione di nuovi dazi, ma una tale mossa non è stata (per ora) annunciata.
Venerdì sera Trump, ha confermato l’imposizione di dazi del 25% sulle importazioni da Canada e Messico a partire dal 1° febbraio, ribadendo la sua linea dura nei confronti dei due principali partner commerciali americani, accusati di non porre fine alle spedizioni di fenatanyl e al flusso di migranti attraverso i confini statunitensi. “Dobbiamo davvero farlo, perché abbiamo deficit commerciali molto grandi con questi Paesi” ha dichiarato Trump durante un incontro alla Casa Bianca.
Inoltre Trump ha di nuovo messo in guardia i paesi membri dei BRICS dal sostituire il dollaro statunitense come valuta di riserva, ripetendo la minaccia di tariffe del 100% da lui avanzata dopo la vittoria alle elezioni presidenziali di novembre. “L’idea che i paesi Brics stiano cercando di allontanarsi dal dollaro, mentre noi restiamo a guardare, è finita. Chiederemo a questi Paesi apparentemente ostili di impegnarsi a non creare una nuova valuta Brics, né a sostenere un’altra valuta per sostituire il dollaro statunitense, altrimenti dovranno affrontare tariffe del 100%”, ha detto Trump su Truth Social, una dichiarazione quasi identica a quella pubblicata il 30 novembre scorso. Il raggruppamento, che in prima battuta nel 2009 comprendeva solo Brasile, Russia, India, Cina e poi Sud Africa, nel 2023 ha aggiunto Egitto, Etiopia, Iran ed Emirati Arabi Uniti, mentre all’inizio di questo mese è entrata a farne parte anche l’Indonesia. Ora l’intero gruppo rappresenta oltre il 40% della popolazione mondiale e il 37% del Pil globale, nonchè il 44% delle riserve di petrolio, il 53% delle riserve di gas naturale, il 72% delle riserve di “terre rare”. Il gruppo non ha una moneta comune, ma l’agomento torna spesso sul sul tavolo .
Restano invece ancora da definirsi i contorni dei provvedimenti che Trump vorrà prendere con i commerci cinesi: dall’imposizione di dazi al 60%, Trump, dopo una “amichevole” telefonata con Xi Jinping è sceso a un ipotetico 10%, ma per lo più il presidente da allora sglissa sull’argomento.
E poi c’è l’Europa che si aspetta indicazioni il primo di aprile. Trump l’ha messa nel mirino, definendola “molto, molto cattiva” nei confronti degli Stati Uniti. “Anche altri Paesi sono grandi abusatori, non solo la Cina”, ha specificato Trump. “Abbiamo un deficit di 350 miliardi di dollari con l’Unione Europea. Ci trattano molto molto male, quindi dovranno prepararsi ai dazi“.
Christine Lagarde ha osservato che le rinnovate tensioni commerciali potrebbero esercitare una pressione ancora maggiore sulla crescita già in ritardo della zona euro. “I rischi per la crescita economica restano orientati al ribasso”, ha detto in merito ai dazi minacciati da Trump su un ampio insieme di paesi. “Tutto ciò che sappiamo per certo è che avrà un impatto negativo globale”.
Anche il governatore della Banca del Canada, Tiff Macklem, ha deplorato le minacce tariffarie di Trump, quando ha effettuato il sesto taglio consecutivo dei tassi e ha tagliato le previsioni di crescita. “Un conflitto commerciale duraturo e su vasta scala danneggerebbe gravemente l’attività economica in Canada”, ha affermato.
Il dollaro è forte rispetto a tutti o quasi. Ma è veramente conveniente per Trump?
Già la sola divergenza di politica monetaria tra la Fed e i suoi pari esercita una pressione al rialzo sul dollaro, ma lo stesso faranno i dazi di Trump. Un biglietto verde, che ha raggiunto il massimo di 2 anni contro il paniere di valute il mese scorso, se troppo forte potrebbe anche essere un problema per Trump: terrebbe le importazioni Usa più cheap in un momento in cui Trump vuole invece un “riequilibrio” del commercio globale a favore degli Stati Uniti. Si tratta di un compito già arduo dopo il record di deficit commerciale statunitense registrato alla fine del 2024.
Il biglietto verde è retrocesso dai picchi negli ultimi giorni, ma resta forte. Le prime valute schiacciate dal suo peso sono naturalmente il dollaro canadese e il peso messicano, in attesa dei tassi di Trump. La valuta canadese è rimasta vicino al minimo degli ultimi cinque anni a 1,4490 dollari canadesi. Il peso messicano sta cercando di riprendersi dal recente forte calo, ma si trova nell’area 20,6849 per dollaro.
L’euro del resto ha più di una gatta da pelare in futuro prima di poter tornare a salire: ci vorrà chiarezza sulla politica europea, la fine della guerra in Ucraina, chiarezza sull’assenza di tariffe di importazione statunitensi e un andamento del PIL più stabile, dicono gli analisti che non vedono lontana la parità tra euro e dollaro (ora oscilla attorno a 1,02/04), vicino al minimo di oltre due anni di 1,0177 toccato lunedì.
L’ipotesi dazi sul made in China ha fatto perdere terreno anche allo yuan rispetto al dollaro, nonostante la Banca centrale cinese sia corsa in soccorso della sua valuta, fissando la parità centrale a 7,1703, rafforzandola di 183 punti base, al livello più forte dall’8 novembre 2024. Il valore è 1.200 punti base più alto delle aspettative del mercato: gli analisti indicano nella svalutazione dello yuan la via primaria per attenuare l’effetto delle possibili tariffe Usa sull’export cinese.
Ma sono pressione quasi tutte le valute rispetto al dollaro (tranne lo yen, sostenuto dalla politica della Boj): dalla sterlina che ha perso quasi l’1% nel mese, al dollaro australiano che ha accumulato un calo settimanale dell’1,7%, al dollaro neozelandese che ha perso in settimana circa l’1,3%, il franco svizzero
Sai che c’è? Mi rifugio nell’oro
Il timore che l’effetto dazi si scateni sull’inflazione, ma anche il clima di incertezza e la paura di volatilità ha scatenato la corsa all’oro, il bene rifugio per eccellenza, e le riserve custodite nei caveau della Banca d’Inghilterra, a Londra, sono diminuite rapidamente a seguito delle tante spedizioni negli Stati Uniti. A dare la notizia è il Financial Times, secondo cui l’attesa per ritirare i lingotti nei depositi della banca centrale britannica è aumentata da pochi giorni a 4-8 settimane. I trader, preoccupati dal fatto che i dazi Usa possano coinvolgere anche il mercato dell’oro, hanno accumulato a New York scorte stimate in 82 miliardi di dollari (78 miliardi di euro), a fronte di una diminuzione della liquidità sul mercato di Londra. Giovedì l’oro ha toccato un nuovo massimo storico. Il metallo prezioso è salito dell’1,4% a 2.798,59 dollari l’oncia, superando il precedente massimo storico stabilito in ottobre.
Il dilemma di Trump: come fare meglio della buona eredità lasciata da Biden?
Questa situazione ha lasciato Trump con un potenziale dilemma: come migliorare i risultati economici dell’amministrazione Biden in un’economia che presumibilmente sta operando a piena occupazione con produzione e tassi di crescita vicini o oltre i limiti del suo potenziale. La produzione statunitense è cresciuta del 2,8% nel 2024 , il quarto anno consecutivo in cui il prodotto interno lordo è cresciuto ben al di sopra dell’1,8% considerato il potenziale a lungo termine dell’economia. L’inflazione è quasi sotto controllo,