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Mercati e democrazia: un equilibrio difficile

La tempesta economica e finanziaria globale, innescata nel 2007 dalla “madre di tutte le crisi”, quella dei mutui americani sub-prime, si è materializzata e sviluppata in varie “crisi-figlie”, spesso di natura completamente diversa tra loro: la crisi del sistema di regolazione e supervisione del sistema economico-finanziario internazionale, così come la disfatta della finanza creativa; l’inefficienza della governance globale (G8, FMI) e di quella di aree integrate (Unione Europea), ma anche la totale inadeguatezza dei Governi nazionali. L’ennesima crisi dell’ennesima versione del capitalismo ha fatto da corollario alla stanchezza di un modello di convivenza sociale che non sopporta più alcuni squilibri retributivi. La vera sorpresa però deriva dal fatto che la violenza, la globalità e il perdurare della turbolenza abbiano messo in evidenza il logoramento del funzionamento delle democrazie occidentali nazionali, così come le abbiamo conosciute nel XX secolo e in questo scorcio del XXI.

Stiamo infatti vivendo un paradosso: i mercati, tradizionalmente ossessionati dai risultati trimestrali – dunque di brevissimo periodo – delle aziende, sembrano invece segnalare, con la loro volatilità, aspettative negative sul lungo periodo. Rivelano infatti una sfiducia degli analisti finanziari sulla tenuta complessiva del sistema e sulla sua coerenza (pensiamo a quante linee diverse si sono succedute per decidere in che modo affrontare la crisi del debito sovrano in Grecia), costringendo i leader politici a fronteggiare le condizioni avverse del mercato non solo con provvedimenti tampone (per rimettere in ordine i fondamentali), ma anche con riforme strutturali, le uniche in grado di garantire che i nostri modelli di sviluppo non riproducano un’altra crisi, ancora più violenta, in tempi ravvicinatissimi (non a caso, da ultimo in Italia, i rendimenti sui bot a 6 mesi sono scesi a 3,5% contro il 7% sui btp decennali).

In altre parole, se Frau Merkel e Monsieur Sarkozy hanno tardivamente deciso di avviare un complesso processo di riforme istituzionali per dare maggiore efficacia alla governance europea, è soprattutto perché i mercati non si sono sentiti rassicurati delle mezze misure adottate fino a ieri.

D’altro canto, chi riceve il mandato elettorale a governare un Paese, sembra godere solo dei primi 100 giorni di grazia, normalmente il tempo necessario a capire i complessi meccanismi della macchina amministrativa che si è chiamati a dirigere. Successivamente, si affonda progressivamente in quel regime di semi-paralisi dovuto a continui condizionamenti ricevuti da elezioni locali a vario titolo (comunali, provinciali, regionali) che si tengono con una frequenza ossessiva (almeno una volta all’anno) e che finiscono – queste sì – per vincolare il leader politico al brevissimo periodo. Come spiegare, infatti, l’aver rinviato decisioni più efficaci e tempestive nei confronti della Grecia se non con i condizionamenti di ravvicinate consultazioni elettorali in vari Lander tedeschi, che tenevano sotto pressione il Governo Merkel con visioni local-nazionalistiche? Se la politica (quella con la P maiuscola) dovrà sempre più fronteggiare problemi globali (il clima, le fonti energetiche, l’acqua, etc.), come concilieremo la necessità di una preparazione e di una visione internazionale con il vincolo di una costituency regionale, se non addirittura comunale? Potremmo varare una riforma sanitaria alla vigilia del voto per eleggere il Sindaco di Udine?

Il tempo a disposizione, dunque, per poter individuare le priorità, analizzare i problemi, proporre ed applicare delle strategie di risoluzione non è una variabile indifferente, ma, al contrario, dirimente. La politica deve avere cioè più tempo a disposizione per poter scegliere un modello e lavorare per applicarlo, che non quello che ti consentono oggi le ripetute elezioni locali, vissute quale metro di valutazione del tuo operato, come un analista di mercato farebbe con i risultati trimestrali di un’azienda.

Come se ne esce da questo paradosso? Non ho ricette certe, ma forse il modello “made in USA” ci indica una strada: gli Americani accorpano tutte le elezioni locali con le politiche-presidenziali e conferiscono dunque ad un Presidente, forte della sua maggioranza, pieni poteri per quattro anni (fatta salva l’elezione di mid-term, che infatti riesce a mettere in difficoltà anche un leader carismatico come Obama). Non a caso gli Stati Uniti continuano ad essere protagonisti assoluti della scena mondiale.

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