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Mercati, come muoversi dopo la valanga cinese. Crisi ferragostana o inversione di tendenza?

Come in ogni crollo che si rispetti, quando gli investitori fuggono c’è qualcuno che sta guadagnando. E anche nella frana cinese c’è chi ha saputo muovere con destrezza le proprie pedine. Un hedge fund del gruppo Carlyle, per esempio, è riuscito a guadagnare cento milioni di dollari indovinando la scommessa sulla Cina e lo yuan (con una performance di +75%). Con tempismo perfetto, secondo quanto ha riportato il Wall Street Journal, il fondo Nexus Fund di Emerging Sovereign Nations Group, ha anticipato la svolta nella politica valutaria di Pechino puntando contro lo yuan: in altre parole attraverso opzioni put ha puntato su un ribasso dello yuan. Nexus ha potuto rastrellare simili opzioni a basso prezzo perché la maggioranza degli investitori era convinta che Pechino avrebbe sostenuto lo yuan, senza lasciarlo scivolare.

Poi, attorno a giugno, il clima è cambiato: sono aumentate le incertezze sulla crescita cinese, i listini hanno sperimentato forti correzioni e gli investitori hanno iniziato a interrogarsi sulle capacità delle autorità cinesi di sostenere l’economia e riportare la fiducia sui mercati. A poco sono servite le imponenti misure messe in campo dalle autorità cinesi a inizio luglio: il taglio dei tassi di interesse a nuovi minimi storici, l’annullamento di tutte le nuove ipo, il divieto di vendite allo scoperto e l’autorizzazione di due agenzie statali a investire massicciamente in compagnie quotate in borsa. Alla fine di luglio gli investitori avevano tolto 10 miliardi di dollari dagli hedge fund focalizzati sull’Asia e i listini avevano perso il 30%. La svalutazione dello yuan della scorsa settimana ha sollevato ancora più preoccupazioni sull’economia e il dato sull’indice Pmi manifatturiero sceso in luglio a 47,1 punti, il livello più basso da 77 mesi, ha inferto un ulteriore colpo. Solo questa settimana la Borsa di Shanghai ha perso un altro 11%. Per Goldman Sachs, tuttavia, la svalutazione dello yuan decisa dalle autorità ha più a che fare con il dollaro e la politica monetaria Usa che con le sfide economiche domestiche del Paese. L’aumento dei tassi in arrivo può spingere il dollaro più in alto del 20% nei prossimi tre anni, rileva il broker americano, si tratta di livelli a cui la Cina non vuole necessariamente essere legata a fronte di un export che rischia di perdere competitività. Per questo ha deciso di agire ora, per comprarsi flessibilità in anticipo.

ATTENZIONE ALL’EFFETTO FERRAGOSTO

Il quadro non è certo chiaro. Visti gli esigui volumi di Borsa ferragostani, che rendono i mercati più volatili, è ancora presto per capire se siamo di fronte a una crisi d’agosto o se è iniziata una vera e propria inversione di tendenza. Una situazione che peraltro si aggiunge al fronte già caldo di un petrolio in caduta libera a circa 40 dollari al barile. Due i fronti principali che suscitano timori negli investitori: da un lato la svalutazione dello yuan riduce i profitti realizzati dalle aziende straniere in un Paese la cui economia sta comunque rallentando, un fatto questo che ha fatto scattare le vendite sulle aziende globali che hanno puntato sui mercati asiatici; dall’altro, una volta che la Fed inizierà a rialzare i tassi, il debito americano tornerà a essere maggiormente attraente. Sullo sfondo c’è il rischio di una guerra valutaria nell’area dove gli altri Paesi dipendono in larga parte dalle esportazioni. Il Vietnam per esempio ha già consentito una lieve svalutazione del dong e nel corso dell’ultimo anno due divise come la rupia indonesiana e il ringgit malese hanno perso oltre il 15% del loro valore, per cui non appaiono improbabili nuovi interventi. Tuttavia, la Cina per alcuni rimane attraente. La scorsa settimana il miliardario Juliian H. Robertson, manager di hedge fund, ha annunciato di aver investito nella Yulan Capital Management, una società che si focalizza sulle aziende della Grande Cina. In ogni caso, fanno notare alcuni operatori, “giocare” la partita cinese è molto più difficile perché, sul fronte del controllo dei capitali, non si conoscono le regole che cambiano ogni volta.

BIG CAP NEL MIRINO, Sì AD AUTO E LUSSO

Per le imprese occidentali, la crisi cinese comporta numerosi elementi di rischio: da una parte sono penalizzate le aziende, come quelle del lusso, che guardavano con sempre maggiore interesse al mercato locale. Dall’altra la crisi cinese si traduce in minore richiesta di commodities i cui prezzi sono inoltre in continuo calo. E per le aziende occidentali attive nella produzione e trasformazione delle materie prime, ma anche per quelle che producono macchinari, le conseguenze di lungo termine potrebbero essere molto pesanti. Anche perché questa situazione si aggiunge a un periodo in cui questi settori sono rimasti indietro.

Per gli esperti di JpMorgan Cazenove, per quanto riguarda l’azionariato europeo, bisogna rimanere lontani da materie prime ed energia ma è tempo di tornare su auto e lusso: il primo è stato troppo penalizzato dalle recenti vendite, mentre il secondo mantiene multipli attrattivi. D’altra parte JPMorgan non crede che Pechino possa procedere a ulteriori rapide svalutazioni significative dello yuan: in parte perché non farebbe che ritardare la stretta monetaria della Fed, in parte perché i segnali non sembrerebbero suggerire una frenata dell’economia cinese così drastica; infine, perché l’ammontare del debito denominato in dollari dei grossi gruppi cinesi è tale che un suo innalzamento avrebbe serie ripercussioni sulla tenuta finanziaria di tali aziende. Per JPMorgan è possibile che lo yuan venga svalutato di un altro 6% entro fine 2016, un intervento che sarebbe comunque “digeribile” dai mercati azionari.

Tra i listini più colpiti, inoltre, c’è stata la Piazza di Francoforte: sul Dax una buona parte dei titoli appartengono a industriali e auto che dipendono fortemente dalle esportazioni in Paesi come la Cina. Per la società di gestione Baring Asset Management si è trattato di una reazione eccessiva e ritiene che questi ribassi rappresentino una opportunità di acquisto.

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