Si usa dire che, quando i politici non riescono a trovare un accordo, viene formata una commissione di studio il cui scopo, spesso, è solo quello di andare lentamente a finire nel nulla. Le banche centrali, dal canto loro, non formano commissioni quando c’è disaccordo al loro interno, ma quando le cose vanno abbastanza bene da non rendere urgenti altre misure, che vengono tenute nel cassetto in attesa di tempi più turbolenti. Istituire una commissione di studio, in questi casi, serve a non lasciare i mercati a bocca completamente asciutta e a mantenerli in uno stato di speranza. Se non è per questa, sarà per la prossima volta.
La Banca Centrale Europea usa spesso le commissioni di studio. Le sue armi non sono infinite e vanno tenute per i momenti difficili. Le decisioni di istituire o prolungare il Quantitative easing hanno sempre seguito lo stesso percorso, preannuncio, commissione, delibera, il tutto distanziato di quattro-sei mesi.
Il Qe in corso dovrebbe terminare in febbraio. Decidere adesso di prolungarlo di sei mesi non cambia niente. Deciderlo in dicembre, con le elezioni americane alle spalle e una prevedibile ripresa di volatilità, potrà salvarci da una situazione meno facile dell’attuale. Se poi anche dicembre sarà tranquillo, ci saranno ancora due mesi di tempo per decidere, quei due mesi, gennaio e febbraio, in cui quest’anno abbiamo visto un’esplosione di negatività e di sfiducia per uscire dalla quale è stato prezioso il contributo della Bce.
Lo stesso vale per le altre misure che un mercato un po’ troppo ottimista si aspettava per oggi, incluso l’allargamento del Qe all’acquisto da parte della banca centrale di obbligazioni bancarie e di azioni. Non ne abbiamo nemmeno parlato, ha risposto sbrigativo Draghi.
In effetti in questo momento non solo l’Europa, ma il mondo intero appare insolitamente tranquillo. L’Europa cresce dell’1.6 a velocità regolare, l’America è più discontinua ma il 2 per cento dovrebbe essere raggiunto anche quest’anno. La Cina resta avvinghiata al suo 6.5-7 per cento. Il petrolio è calmo. Gli emergenti, pur senza brillare, vanno meglio di un anno fa. Le banche italiane danno qualche segnale positivo e quelle europee, nel loro complesso, stanno lentamente riprendendo a prestare soldi. Non ci sono crisi finanziarie nemmeno regionali o settoriali. I cambi sono in equilibrio. Brexit è congelata.
I mercati finanziari o sono in sedazione profonda o in lento e placido rialzo. New York è ai massimi di tutti i tempi e lo è, curiosamente, anche Mosca. Shanghai è composta e positiva. Londra guadagna il 10 per cento dall’inizio dell’anno.
Quello che è tranquillo non è necessariamente solido. La borsa di New York è sostenuta, più che dagli utili, dal Qe europeo e giapponese. Molti grandi gestori che prevedono tempi cupi (tra i negativi ci sono grandi maestri come Soros, Gundlach, Tudor Jones e Paul Singer) aspettano forse le elezioni e il rialzo dei tassi di dicembre prima di attaccare.
Anche i fondamentali sono più fragili di quello che sembra. La riaccelerazione americana non è così forte e certi dati positivi dei due mesi passati riflettono un’impennata delle vendite di auto dovuta a sconti temporanei e già terminati. La Cina e l’Europa appaiono in crescita regolare, ma le fragilità strutturali sono sempre lì. I grandi problemi globali dell’eccesso di debito e della produttività a crescita zero non si sono allontanati di un millimetro. Anche il quadro geopolitico ribolle sotto una superficie che appare solo increspata.
Non siamo dunque usciti da nessun tunnel, ma stiamo incomparabilmente meglio che in gennaio e febbraio, almeno in apparenza. In questo contesto sarebbe sprecato, da parte delle banche centrali, usare armi e munizioni che potrebbero essere ben più utili fra qualche mese. Per questo non ci aspettiamo molto nemmeno dalla Banca del Giappone che si riunirà il 21 settembre, lo stesso giorno in cui la Fed si dichiarerà prontissima ad alzare i tassi, salvo non alzarli.
Settembre e ottobre sono storicamente i mesi più propizi per cadute grandi o piccole dei mercati azionari. Sono la stagione in cui i portafogli, appesantiti dai rialzi dei primi sette mesi, si trovano vulnerabili di fronte a qualsiasi notizia negativa. Quest’anno però la correzione è stata in gennaio e febbraio e i portafogli non hanno fatto ancora in tempo a ricaricarsi. Alcuni gestori e molti portafogli individuali sono ancora sottopesati e stanno coprendosi adesso con grande ritardo. Le elezioni americane, dal canto loro, paralizzano la Fed e bloccano sul nascere qualsiasi velleità di rialzo dei tassi.
Per questo ci aspettiamo un settembre e un ottobre eccezionalmente tranquilli. In compenso, la fine anno tradizionalmente propizia ai mercati azionari potrebbe essere quest’anno più turbolenta del solito, anche se per una correzione ci sarà forse da attendere la prima metà dell’anno prossimo. Non ci sono più le stagioni di una volta.