Proviamo a tracciare la rotta per i prossimi cinque mesi. Dato che negli ultimi due anni ci siamo abituati alla bonaccia o, al massimo, alle lente derive governate attentamente dalle banche centrali sarà bene darci un forte pizzicotto, non farci distrarre dalle feste in arrivo e prepararci con il massimo della concentrazione a un 2017 straordinariamente impegnativo.
Il primo grande cambiamento lo abbiamo avuto in America con Trump. Dollaro, borse e bond hanno reagito, ma molto resta ancora da capire e da fare. Il secondo grande cambiamento può avvenire con il secondo turno delle elezioni francesi del 7 maggio. Alle 8 di sera di quel giorno sapremo infatti se una Francia neothatcheriana darà una potente scossa di energia a tutto il continente o se una Francia lepenista porterà alla dissoluzione di Eurolandia e al ritorno delle monete nazionali in un clima di elevata e prolungata instabilità.
Il referendum italiano sarà importante localmente e deciderà quanto margine di autonomia politica ci resterà in mano o quanto verremo ancora di più commissariati da Berlino, Bruxelles e Francoforte. Se vincerà il no e se lo stesso giorno vedremo un presidente di destra radicale insediarsi in Austria sentiremo per qualche tempo discorsi sul populismo che ormai dilaga in tutta Europa, ma né il voto italiano né quello austriaco comporteranno immediati rischi sistemici.
Anche il voto olandese del 15 marzo non produrrà cambiamenti radicali. Wilders guadagna nei sondaggi due punti alla settimana, ma è da escludere che arrivi in tempo alla maggioranza assoluta. I Paesi Bassi hanno un sistema rigorosamente proporzionale e nell’ultimo sondaggio di tre giorni fa a Wilders sono stati assegnati 33 seggi virtuali su 150. Il suo è il primo partito ma tutti gli altri si coalizzeranno per lasciarlo all’opposizione. Dal canto suo la Germania, che voterà in settembre, è rimasto l’unico paese in cui i sondaggi funzionano ancora benissimo e la Merkel appare indisturbata al comando fino al 2021.
L’unico voto decisivo per la sopravvivenza dell’euro da qui alla primavera del 2018 (quando voterà di nuovo l’Italia) è dunque quello francese. Al ballottaggio andranno, salvo sorprese, Fillon e Le Pen. Fillon è gollista, ma non ha niente in comune con il gollismo statalista di De Gaulle o di Chirac né con quello fintamente liberale di Sarkozy. Sostiene infatti che la Francia, così com’è, è destinata a implodere e propone una cura thatcheriana ultraliberale come ultima possibilità di salvarla. Poiché dai Merovingi ad oggi la Francia è stata liberale solo sotto Luigi Filippo d’Orléans (più qualche fase della Terza Repubblica) si può ben capire la portata dirompente del discorso di Fillon. Talmente dirompente che l’elettorato di sinistra potrebbe addirittura preferirgli la statalista Le Pen e farla vincere. Le Pen non chiede più l’uscita immediata dall’euro ma si batte per uno scioglimento negoziato e ordinato.
Anche se il modello è una trattativa tipo Brexit pare comunque lecito nutrire dei dubbi su quanto ordinato potrebbe essere un processo del genere. Se ora ci spostiamo dall’altra parte dell’Atlantico vediamo le condizioni perché il Trump rally azionario si possa prolungare non solo fino al giorno dell’insediamento ufficiale, il 20 gennaio, ma anche per i primi cento giorni della nuova amministrazione.
Il flusso di notizie da Casa Bianca e Congresso in febbraio, marzo e aprile sarà incessante e inebriante, quanto meno dal punto di vista del mercato azionario. Solo le riduzioni fiscali previste basteranno a fare crescere del 10 per cento gli utili per azione degli indici. A questo andranno aggiunti il piano per le infrastrutture e il rilancio in grande stile dei buy-back da parte delle società che rimpatrieranno i capitali detenuti all’estero. Musica celestiale, divine armonie. Il dollaro forte e la Fed, per qualche tempo, non rovineranno la festa. Intendiamoci, il dollaro si rafforzerà ancora, anche se non di molto e la Fed, se tutto andrà davvero bene, alzerà i tassi tre o quattro volte da qui alla fine del 2017.
L’inflazione, dal canto suo, continuerà a salire, ma nei primi tempi la sua salute sarà letta come un segno della salute generale del sistema. A un certo punto, è chiaro, il peso dei tassi e del dollaro si unirà alle perplessità sulle valutazioni raggiunte e ai dubbi sulla tenuta del rialzo.
Le elezioni francesi potrebbero essere l’occasione per una correzione globale poco prima del voto. In caso di vittoria di Fillon l’Europa darà il cambio all’America come motore del rialzo azionario e recupererà un’ampia parte del distacco accumulato nei mesi precedenti. Nei portafogli si tratta ora di scegliere tra la strada americana e quella europea.
La strada americana è fatta di dollaro, azioni non difensive e titoli governativi indicizzati all’inflazione. Darà, crediamo, buone soddisfazioni per tutti i prossimi due anni, ma esprimerà il meglio nei prossimi quattro-cinque mesi. La settimana prossima, in caso di correzione generale per il voto italiano, offrirà la possibilità di comprare la borsa americana con un piccolo sconto rispetto ai massimi dei giorni scorsi, poi bisognerà tenere tutto fino a primavera.
La strada europea è più accidentata e rischiosa perché costringe a muoversi tra incognite politiche binarie che sono fuori dal controllo di chi investe. In cambio offre valutazioni più basse, un 2017 di discreta crescita economica e qualche possibilità di aumento degli utili grazie all’euro competitivo e alle politiche fiscali espansive.
A proposito di queste ultime, la differenza con l’America è che là i programmi infrastrutturali e i tagli di tasse verranno esibiti con orgoglio e creeranno ottimismo, mentre in Europa gli sforamenti di bilancio continueranno a essere oggetto di recriminazioni e colpevolizzazioni che deprimeranno il morale. Idealmente vedremmo bene una netta scelta direzionale rialzista per la parte americana dei portafogli mentre la parte europea dovrebbe essere gestita, almeno fino a maggio, in un’ottica long/short tra paesi e settori.