Per capire se il Governo Meloni è buono o cattivo bisogna fare, come dicono gli inglesi, la prova del budino mangiandolo, consiglia Marco Follini, democristiano da sempre, uno degli allievi prediletti da Aldo Moro, più volte parlamentare e Vicepresidente del Consiglio nel secondo Governo Berlusconi con cui non esitò a scontrarsi apertamente. Follini non ha pregiudiziali verso il Governo Meloni ed è convinto che oggi Berlusconi e Salvini, pur essendo decisivi per la vita del nuovo Esecutivo, “non potranno insidiare il ruolo del(la) prima ministro e che “il vero banco di prova Meloni sarà il rapporto con il Paese”. Quanto invece alle tre diverse opposizioni il consiglio di Follini è di puntare subito su una legge elettorale proporzionale che sarebbe “anche un modo per essere meno in disaccordo tra loro”. Ma, intervistando Marco Follini, è impossibile sfuggire al riflesso pavloviano di un confronto con l’era del suo grande maestro, Aldo Moro, a cui qualche mese ha dedicato un libro bellissimo e molto originale come “Via Savoia. Il labirinto di Aldo Moro”, edito da La nave di Teseo. “Moro – osserva con disincanto – invitava sempre a vivere il proprio tempo, senza saltare nessuno dei suoi passaggi, e tuttavia oggi sarebbe una figura straordinariamente inattuale” perchè “lui era regista del tempo, ma di un tempo che non doveva essere troppo affrettato” al contrario del nostro, così superficialmente sbrigativo. Ma ecco l’intervista rilasciata da Marco Follini a FIRSTonline.
Onorevole Follini, qual è il suo giudizio politico sul Governo Meloni? Quali sono gli aspetti che la convincono di più e quali quelli che la convincono meno o per nulla?
“Sono un democristiano che ha un certo spirito critico. Dunque, non ho votato Meloni alle elezioni e non avrei votato il suo governo in Parlamento. Non mi convince quello spirito così identitario, un pochino angusto (qualche volta addirittura quasi settario) delle parole d’ordine che formano la trama del suo racconto. Il paese non ha bisogno di un governo così convinto della propria parzialità. Semmai avrebbe bisogno di un lavoro di cucitura, di un intreccio di culture politiche che dovrebbero, tutte quante, rinnovarsi liberandosi dello sventolio di bandiere piene di colori ma ormai prive del vento che le faccia sventolare. Che non ci sia un ministro imprevisto (e indipendente), che non ci sia nessuna apertura verso altri mondi, tutto questo dà un pò l’idea del fortilizio. E finirà, secondo me, per togliere respiro all’azione del governo.
Detto questo, vanno riconosciute a Giorgia Meloni alcune qualità importanti. Si sente vibrare in lei la corda di una passione politica autentica. È donna, è outsider. Ha mestiere. E poi si intuisce che stia facendo un certo lavoro su se stessa. Si vede che cerca di imparare, che non si sente così “pronta” come recitano i manifesti della sua campagna elettorale. Il rapporto così rispettoso verso Draghi mi pare parte di un tragitto che non merita di essere sottovalutato. Dunque, nessun pregiudizio. Come dicono gli inglesi, la prova del budino la si fa mangiandolo”.
È vero che allo stato non sembrano esserci alternative praticabili al Governo Meloni ma è vero anche che FdI non ha la maggioranza da solo e che la premier sarà sempre in balia delle mattane di Berlusconi e Salvini. Lei conosce molto bene Berlusconi, avendolo nel passato affrontato a viso aperto: si rassegnerà al suo lento declino e all’assenza di alternative al Governo Meloni o rappresenterà una costante mina vagante per la premier?
“C’è una fondamentale differenza tra le sfide passate e quella di oggi. Ai miei tempi (frase da vecchio, viene da dire) la sfida veniva portata per così dire dal centro, in nome di princìpi e politiche che reclamavano una coalizione meno spostata a destra. Oggi invece la sfida della Meloni avviene proprio da destra. Non reclama dialoghi con l’opposizione o regole condivise o un di più di spirito istituzionale. È una sfida che poggia però su numeri ben più favorevoli. Vent’anni fa muovevamo “guerra” a Berlusconi da posizioni minoritarie, ancorché in crescita. Oggi Meloni può contare su una solida egemonia numerica. Oltre che, ovviamente, sul fattore tempo che gioca anch’esso a suo favore.
Quanto a Berlusconi io penso che continuerà così. Non è facile che si rassegni a un ruolo da comprimario, ma è impossibile che ritrovi un ruolo da protagonista. Tantomeno da mattatore. Sono le disavventure di carriere troppo lunghe e infine un pò ripetitive. Insomma, secondo me, la sua presa sulla maggioranza è destinata a diminuire. E il suo racconto di sé a farsi via via meno suggestivo. Ma anche questa non è propriamente l’opinione di un tifoso – come è noto”.
Per la stabilità del Governo Meloni è più insidioso Berlusconi o Salvini? Come si regolerà, secondo lei, Meloni con la Lega? Lascerà fare o, prima o poi, affronterà Salvini a brutto muso?
“Non credo che la Meloni si dovrà guardare più di tanto dalle trame dei suoi alleati. I quali cercheranno di mordere il freno, tutti e due. Ma non potranno insidiare il ruolo del(la) primo ministro. Il suo vero banco di prova sarà il rapporto con il paese. E cioè se e quanto sarà capace di guadagnare nuovi consensi, di convincere gli indecisi, di riportare a un sentimento positivo quella grandissima parte di elettorato che sempre più diserta le urne. Il problema, insomma, sarà sempre meno il Risiko di maggioranza. E sempre più quello di allargare il perimetro del consenso all’azione di governo.
Sotto questo profilo, insomma, né Berlusconi né Salvini possono rappresentare una così grande minaccia. Semmai c’è un tema che potrà mettere in movimento nuove e più insidiose dinamiche. Il tema del federalismo e dell’autonomia differenziata delle regioni. In modo più ampio, il tema del territorio. Tema che il leader della Lega ha molto trascurato, confidando di allargare verso sud il suo bacino di consenso. Ma che ora rischia di tornare di attualità, anche alla luce dei risultati elettorali. Da questo punto di vista Meloni corre un rischio. Poiché la Lega ha nel nord un insediamento importante, sia pure in calo, e una rete di amministratori tutt’altro che distratti. E il M5S viceversa minaccia la tranquillità dell’azione di governo nel Mezzogiorno, che non è più roccaforte dell’esecutivo (quale che sia il suo colore politico)”.
Il dibattito parlamentare sulla fiducia al nuovo Governo ha fatto emergere con chiarezza tre diverse opposizioni: quella dialogante di Renzi e Calenda, quella evanescente del Pd e quella populista dei Cinque Stelle. Qual’è il suo giudizio e come pensa che evolveranno i loro rapporti?
“Ci sono, al momento, tre opposizioni. E due modi di essere. Ci sono il Pd, il M5S e il “terzo” polo, ovviamente. C’è poi una linea “entrista”, come si sarebbe detto una volta, non troppo lontana dall’area di governo e propensa ad approfittare di qualunque contrasto si produca da quelle parti. La linea esplicitata da Renzi l’altro giorno al Senato. Ed una linea invece di più forte contrasto, antagonista, quasi barricadiera. La linea di Conte, che ha fatto parte – sia pure malvolentieri – della maggioranza Draghi e ora accusa Meloni, che era all’opposizione, di averne scopiazzato la famosa agenda. Nel mezzo sta il Pd, che se la prende comoda e rinvia il congresso di qui a sei mesi. Così, con la scusa di fare le cose per bene si rischia di non farle affatto, arrivando troppo tardi a dare risposte allo sconcerto del proprio stesso elettorato. Piuttosto che un congresso per scegliere linea e leader, temo che il Pd si stia avvitando in una specie di “azione parallela”. Che ricorda un pò l’Uomo senza qualità di Musil e la sua sconsolata descrizione della fase calante dell’impero asburgico. Ma spero di sbagliare, s’intende.
Quanto al da farsi, mi permetto un consiglio: puntare tutto su di una legge proporzionale. E cercare di farla subito, mettendola al centro della propria agenda politica. Tutte e tre le forze di opposizione, per opposte ragioni, hanno convenienza a cambiare regola elettorale. Lo hanno detto tante volte, un pò vanamente. Oggi hanno l’occasione per farlo. O almeno, per provarcisi. Sarà – sarebbe – un servizio al paese; e anche un modo per essere meno in disaccordo tra di loro”.
Onorevole, lei qualche mese fa, ha pubblicato un libro molto interessante che si intitola non a caso “Via Savoia. Il labirinto di Aldo Moro” che svela e analizza in profondità il mondo del grande statista assassinato dalle Br: durante il recente dibattito parlamentare sulla fiducia non ha mai pensato alla abissale lontananza culturale, morale e politica tra il pensiero e l’azione di Moro e la realtà attuale? Al fondo, quali sono le ragioni che hanno portato al decadimento della politica attuale? La caduta del Muro di Berlino e la fine delle ideologie e del mondo diviso in due blocchi, il tramonto dei partiti, l’esplosione dell’era di Internet e dell’individualismo che porta con sé?
“Moro invitava sempre a vivere il proprio tempo, senza saltare nessuno dei suoi passaggi. E tuttavia, egli sarebbe oggi una figura straordinariamente inattuale. Mi sono chiesto tante volte se, nascendo anni dopo, avrebbe provato la stessa curiosità per la politica, se vi avrebbe dedicato altrettanta passione, se ne avrebbe fatto il cuore della sua vita. Forse si, ma non ne sarei così sicuro. Il suo legame con l’Italia di allora era sofferto, critico, dubbioso. Ma quell’Italia aveva caratteri politici nei quali Moro si riconosceva, sia pure con lo sguardo rivolto un pò più avanti. E se immaginava che la lunga transizione del dopoguerra prima o poi dovesse finire, e che con essa dovesse finire l’anomalia di una democrazia bloccata, il lungo attraversamento a cui aveva dedicato la sua vita era avvenuto tra luoghi, pensieri, abitudini e tradizioni che stavano evolvendo con gradualità, a poco a poco. Lui appunto era regista del tempo. Ma di un tempo che non doveva mai essere troppo affrettato. Non il nostro, verrebbe da dire.
C’è un passaggio nel suo ultimo discorso, quello ai gruppi parlamentari chiamati a ratificare la soluzione della crisi di governo (marzo 1978), in cui Moro descrive in una frase alcuni decenni di storia italiana. Laddove cita le “passioni troppo forti” e le “strutture troppo deboli” tra cui oscillavano i partiti in quella stagione. Di lì in poi ci si è illusi, un po’ tutti, che togliendo di mezzo i partiti, mettendoli all’angolo, rendendoli irrilevanti, trasformandoli nei predellini (tanti predellini, non uno solo) dei loro leader, avremmo finalmente ritrovato lo Stato, le regole, il senso della legge, il primato dell’interesse generale e via dicendo. Non è andata così. Tutt’altro. I partiti di allora erano malati. Ma erano in qualche modo un’approssimazione delle nostre istituzioni. O meglio, di quello che ne restava. Con il passaggio alla “seconda” repubblica abbiamo rimosso quell’ingombro. E siamo caduti nel vuoto, però. Abbiamo fatto a meno di alcuni dei nostri difetti civili di una volta. Ma temo senza quasi nulla in cambio”.
..Titolo V…….intendevo
“Il tema del federalismo e dell’autonomia differenziata delle regioni…” Non è un tema trascurato Meloni è stata molto chiara e pragmatica ” ..per fare il federalismo serve prima di tutto uno Stato forte e autorevole.
Mi auguro che con l’appoggio “entrista” di Renzi rivedano il Titolo VI…..un ulteriore vergogna della politica della sinistra