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Meloni e l’europeismo illusorio che non cede sovranità

FIRSTonline

Il dibattito parlamentare sul Governo Draghi e una successiva lettera alla Repubblica hanno consentito a Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, di ribadire il proprio profondo europeismo, ma di tipo confederale. Ben diverso dal percorso nettamente federale tracciato nel suo discorso da Mario Draghi. Federalismo vuol dire cessione di sovranità da parte degli Stati, graduale o immediata, totale o parziale, e nel caso Ue è graduale e parziale, ma cessione di sovranità. C’è una realtà che va oltre gli Stati e in quella sede, con le dovute procedure, insieme si decide, e gli Stati si adeguano. Confederalismo vuol dire invece accordi di cooperazione, alleanze, in piena autonomia, senza vincoli di trattati se non, appunto, di alleanza, che, come noto, rispondono in pieno all’antica norma del pacta sunt servanda, rebus sic stantibus. E le rebus cambiano, spesso. Tutti europeisti quindi, ma in modo diverso come dice Giorgia Meloni?

Non è affatto così. Dietro il costante uso del modello confederale c’è il tentativo di riaffermare la totale supremazia degli Stati nazionali, tentativo che ogni tanto riemerge e dal quale l’Msi, partito di origine di Fratelli d’Italia, si tenne invece a lungo ben lontano. Il partito che sarà di Giorgio Almirante, segretario per la seconda volta dal 1969 al 1987, votò per la Ceca nel 1951, progetto dichiaratamente federale e non certo confederale; per gli ancor più federali Trattati di Roma nel 1957, con un caloroso saluto di speranze comuni europee di Augusto De Marsanich, allora presidente del partito. E uguali toni nettamente europeisti furono adottati dal missino Pino Romualdi nel dicembre del 1978 quando annunciava il voto favorevole allo Sme, precursore dell’euro, e dichiarava: “Altro è parlare di Europa, altro è esprimere il proprio europeismo e altro è voler costruire sul serio una realtà europea che potrebbe in via definitiva fare riacquistare all’Europa la coscienza politica, oltre che la coscienza economica, e farla diventare un termine di nuovo rispetto nel quadro della politica internazionale”. Un sano nazionalismo europeo, più o meno. Anche perché il Pci votava sempre contro l’Europa, dal ’51 al ’78, e il Msi era quindi dalla parte opposta. Poi tra l’89 e i primissimi anni 90 cambiava il sistema dei partiti, il già Pci diventava socialdemocratico e filoeuropeo, all’estrema destra si passava dall’ Msi ad AN e 10 anni dopo a Fratelli d’Italia, e il fascino del nazionalismo in senso stretto, nazionale, tradizionale, e un po’ nostalgico rilanciava il confederalismo.

Per avere idee più chiare su che cosa è e come funziona il confederalismo, e toccare con mano la scarsa credibilità delle tesi Meloni, sarebbe utile rileggere le primissime pagine dell’autobiografia di Jean Monnet, il grand commis francese che fu ispiratore e regista dei progetti europei avviati poi da Schuman, De Gasperi, Adenauer e vari altri statisti, e primo presidente della Commissione di Bruxelles. Si aprono con un motto: “Non coalizziamo degli Stati, uniamo degli uomini”. Il primo capitolo si intitolava “I limiti della cooperazione”. E a pagina tre si legge questa affermazione: “Non si riesce a immaginare fino a che punto la parola alleanza, che ha una così alta forza rassicurante per i popoli, sia invece vuota di contenuti sul terreno dell’azione quando ci si affida ai meccanismi tradizionali della cooperazione”. Comitati, commissioni congiunte, decisioni comuni prese dai comitati, trasmesse alle capitali, e lì sistematicamente cambiate tagliate mutilate annullate svuotate da governi, parlamenti e burocrazia.

Monnet parlava sulla base di una semisecolare esperienza incominciata da giovane nel 14-18 nelle commissioni esecutive interalleate, anglo-francesi soprattutto, dove furono necessari due anni, ad esempio, per arrivare a una gestione comune del tonnellaggio navale mercantile mentre la guerra sottomarina tedesca infuriava senza quartiere perché nessuno voleva cedere il controllo sulla propria flotta da trasporto. Lo stesso era avvenuto inizialmente durante la Seconda guerra mondiale. Questo vuol dire confederale: insieme, ma in nome della buona volontà, come noto merce deperibile; o di un trattato senza vincoli e senza penali, diamine siamo autonomi, e quindi del valore della carta sulla quale è scritto. Ceca, Mec, Cee, Ue e l’euro sono nati su un’altra logica.

Abbiamo una visione diversa e non per questo siamo antieuropei”, scrive ora Giorgia Meloni. Una “visione diversa” che dice che l’Europa è tutta da rifare. Con le magiche “alleanze” di cui parla Monnet?

Una migliore riflessione, da parte di Giorgia Meloni, meriterebbe anche il tema sanità. “Dov’è l’Europa? Che cosa fa l’Europa?”, si chiedeva la leader di Fratelli d’Italia un anno fa, allo scoppio della pandemia. E scrive ora, dopo avere ricordato che a chiedere “un’Europa migliore” sono i Conservatori europei, il gruppo sovranista di cui è presidente: “Prendiamo come ultimo esempio il contrasto alla pandemia: ha senso che l’onnipresente UE non abbia una strategia unica neppure in tema sanitario o di lockdown? E così via, dalla politica estera alla difesa passando per la ricerca”. Siamo al paradosso, a esser gentili. L’Unione non fa niente nella sanità, o poco? Ma la sanità è fuori dal progetto federale, è confederale. È stata sostanzialmente definita di competenza nazionale e non dell’Unione dal trattato di Maastricht del 1992 (art.129) dove l’Unione viene chiamata «a incoraggiare la cooperazione tra gli Stati membri», tutto qua. Cooperazione, leggere con attenzione, cooperazione. Il Trattato di Amsterdam (1997) ampliava varie competenze Ue, preparava l’allargamento a Est, ma proibiva – esatto, proibiva – l’armonizzazione sanitaria perché competenza degli Stati e perché così volevano gli Stati. Giorgia Meloni dimentica che gli Stati sono sempre gelosi delle rispettive prerogative.

Sulla ricerca, invece, la Ue non è assente, anzi, ma opera con fondi assai più che con controllo delle strategie. Politica estera e difesa? Ma ha idea la leader di Fratelli d’Italia di quali cessioni di sovranità servirebbero per avere una pur limitata, ma vera e all’occorrenza efficace, difesa e diplomazia comune? Giorgia Meloni non vuol neppur sentire parlare di cessioni di sovranità. E allora non pretenda miracoli.

Infine, una nota di metodo. Giorgia Meloni indica con orgoglio l’appartenenza in sede di Parlamento europeo al gruppo Ecr, che si autodefinisce conservatore riformista e antifederalista, e che ha il suo pilastro nel PiS polacco, il partito clerico-sovranista al potere a Varsavia, e un alleato molto combattivo nel Fidesz ungherese di Viktor Orbán, nel Ppe fino a quando non lo cacciano. Sono magna pars del gruppo di Visegrad – Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Ungheria – tanto citato fino a mesi fa anche da Matteo Salvini, nazioni che conobbero la libertà solo nel 1919, dopo secoli di dominio straniero, degli Asburgo viennesi i più fortunati e dei Romanov russi i meno fortunati. Venne, dopo il 19, un ventennio di illusioni, confusioni, inebriati da una libertà alla quale non riuscirono in genere a dare forma prima di essere di nuovo sottomessi, con le armi, e spartiti nel 39 tra Germania hitleriana e Russia sovietica per uscire alla fine stremati e controllati da Mosca, con i sistemi di Mosca, fino al 1989. Sarebbe utile la lettura di qualche pagina del Georges Simenon, giornalista parigino, inviato in quelle terre negli anni ’30 a descrivere la miseria, la confusione, il mito informe della libertà impossibilitata a darsi uno scopo, il sogno di un’indipendenza mai avuta da sette o otto generazioni e che hanno ritrovato solo nell’ultimo decennio del secolo scorso, e ancora li inebria, al dolce suono degli euro che ogni anno la detestata Europa semi-federale manda loro per poter meglio cantare le glorie confederali. Sono Paesi molto maltrattati dalla Storia e che ancora devono recuperare se stessi. Non è lungimirante per una realtà come l’Italia mettersi alla loro scuola.

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