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Meloni, cause e misteri di un cambio di rotta verso l’Europa ed “europolitica delle emozioni”

Imagoeconomica

Le recenti mosse di Giorgia Meloni sullo scacchiere europeo, in particolare il voto contrario alla riconferma di Ursula von der Leyen, hanno suscitato sconcerto fra coloro che cominciavano ad avere di lei un’opinione favorevole. Hanno anche suscitato una strana euforia al limite della schadenfreude, da parte degli oppositori che si sono affrettati ad affermare che aveva gettato la maschera e che si era definitivamente messa al margine della politica europea. Tutto ciò richiede un po’ di cautela, non fosse altro perché è in gioco l’interesse nazionale e perché, piaccia o non piaccia, Meloni è destinata a restare alla testa del governo italiano per un prevedibile futuro.

Meloni: l’abisso tra retorica e realpolitik 

Secondo la celebre definizione di Mario Cuomo a lungo Governatore dello Stato di New York, in politica tutti fanno campagna in poesia poi governano in prosa. Una certa distanza fra i due registri è quindi inevitabile, soprattutto quando si è all’opposizione. Per Meloni la distanza fra la retorica dei discorsi e la pratica di governo si è subito rivelata abissale; in particolare ma non solo sulla politica europea. Marine Le Pen nei tempi recenti ha notevolmente ammorbidito la sua retorica anti-europea (la poesia), ma il programma (la prosa) resta su alcune questioni dirimenti fortemente incompatibile con l’appartenenza all’Ue. Meloni ha fatto il contrario. Prima ma anche dopo le elezioni che l’hanno portata al governo la sua retorica è stata quanto di più populista e sovranista si possa immaginare. La “prosa” è invece stata molto diversa. Basta ricordare che su alcune questioni fondamentali per l’Ue ma anche per la sua immagine politica come l’Ucraina, le relazioni transatlantiche, l’immigrazione, la gestione dei conti pubblici e la modifica del patto di stabilità, Meloni sulla scia di Mario Draghi si è largamente inserita in ciò che si può definire il mainstream europeo. Persino rispetto al suo “amico” Orban, il dialogo è continuato ma in una forma che più che proteggerlo lo ha spinto a cercare compromessi con la maggioranza. La sua vicinanza, per alcuni quasi amicizia, con Ursula von der Leyen non era sfuggita a nessuno. Infine, significativo per gli addetti ai lavori ma non solo, tutte le nomine della tecnostruttura che gestisce la politica europea dell’Italia in luoghi come Bankitalia, il Tesoro o la Farnesina, sono state di altissima qualità e non dissimili da ciò che avrebbe fatto un governo dichiaratamente “europeista”.

Il paradosso delle elezioni europee

Poi sono arrivate le elezioni europee. La “poesia” è stata quella di sempre. Molti, me compreso, ci aspettavamo che, passate elezioni concluse con un prevedibile successo sul piano nazionale e l’umiliazione del concorrente Matteo Salvini, la “prosa” avrebbe riaffermato i suoi diritti. Non è stato così. Tutto è cominciato con le trattazioni in seno al Consiglio Europeo sulla designazione dei nuovi vertici delle istituzioni e il conseguente voto contrario di Meloni su due di essi e l’astensione sul nome di von der Leyen per la Commissione; mossa preceduta da un discorso in Parlamento che riprendeva tutti i temi euroscettici della campagna elettorale. La cosa sorprese, ma si poteva legittimamente osservare che il comportamento degli altri paesi che avevano gestito l’operazione era stato maldestro rispetto al governo italiano. L’aspettativa generale era che tutto dovesse essere valutato nel contesto della formazione della nuova Commissione e del negoziato per il ruolo attribuito al suo interno al membro italiano, ma che poi l’Italia si sarebbe unita alla maggioranza. Come sappiamo, non è stato così. Al Parlamento Europeo, mentre i deputati di Forza Italia hanno votato a favore coerentemente con la loro appartenenza al Ppe e i deputati della Lega hanno votato contro coerentemente con la loro posizione dichiaratamente euroscettica, la sorpresa è stata il voto contrario anche dei deputati di Fratelli d’Italia. Voto pienamente assunto personalmente da Meloni.

Come molti, sono profondamente convinto che si è trattato di un grave errore. A prima vista, la prosa si è allineata alla poesia invece del percorso inverso che tutti auspicavano. Il sospetto è stato confermato da un secondo voto, che questa volta ha accomunato i rappresentanti di tutta la maggioranza al governo in Italia, contrario a permettere all’Ucraina di colpire a fine difensivi il territorio russo con armi fornite dagli alleati. In verità, questo voto è privo di valore perché nessuna delle armi fornite dall’Italia può servire a questo scopo ed è stato comunque deciso in sede Nato che le modalità d’impiego dei mezzi forniti all’Ucraina sono decise sul piano bilaterale. È stata però una presa di posizione che non è passata inosservata. Prima di decidere che si tratta di errori irreversibili che pregiudicano il ruolo dell’Italia in Europa e che rivelano il vero volto di Meloni, è bene però riflettere sulle possibili motivazioni, che restano in verità tanto molteplici quanto misteriose.

I voti e le scelte di Meloni: errori o strategia?

Una prima motivazione, francamente la meno credibile anche perché poco dignitosa per entrambe le interessate, è che si sia trattato di un gioco delle parti fra Meloni e Ursula von der Leyen, preludio a un accordo sul nome e il ruolo del Commissario italiano. Ugualmente meno credibile è l’idea che Meloni si sia sentita legata alla solidarietà con altri partiti membri del suo gruppo Ecr al Pe, in particolare verso il Pis polacco. Sarebbe veramente la prima volta che un gruppo nazionale al governo nel suo paese, subordina l’interesse nazionale a quello degli alleati europei. Stesso giudizio si può dare sulla tesi che Meloni abbia voluto evitare di farsi “superare a destra” dalla Lega di Salvini, proprio dopo averlo umiliato alle elezioni. 

Molto più seria, anche perché espressa dalla bocca dell’interessata, è la motivazione che la maggioranza che ha eletto von der Leyen sarebbe “in contraddizione con il voto espresso dagli elettori”. Nessuno può infatti interpretare le elezioni europee, al netto di fenomeni eclatanti sul piano nazionale come in Francia, come un clamoroso successo delle forze sovraniste. Non lo può credere nemmeno Salvini, e tantomeno una persona normalmente lucida come Meloni. C’è stato un indubbio spostamento a destra dell’elettorato, ma molto contenuto per quanto riguarda i populisti e di cui ha largamente approfittato anche il Ppe. È stata tuttavia notata la soddisfazione non formale con cui Meloni ha accolto il successo di Marine Le Pen alle elezioni europee e poi al primo turno di quelle nazionali. Quasi che si trattasse di un vento a cui lei stessa non può più sottrarsi. È sicuramente vero che la crescita dei populisti in alcuni paesi accompagnata dall’indebolimento per cause diverse dei governi francese e tedesco, sono fenomeni da non trascurare. Tuttavia il vento, se c’è, non è certo un tornado, ma al massimo una raffica di maestrale; che richiede forse di ridurre un po’ la velatura e moltiplicare i bordi, ma non impedisce certo di navigare. A parte i fenomeni noti di Budapest e Bratislava, nessuno degli altri governi a cui i sovranisti partecipano in qualche modo, in Svezia, Finlandia e Olanda, da segni di voler modificare la propria politica europea. Del resto, basta un frettoloso sguardo alla carta geografica, per vedere che l’insieme di quei paesi non gradirebbe certo un’egemonia italiana a presidio del loro interesse nazionale.

Le contraddizioni di Meloni: rifiuto ecologista o calcoli pro-Trump?

Resta una spiegazione più concreta. Dopo aver detto in campagna elettorale che non avrebbe voluto votare con “i socialisti”, ha poi motivato il suo voto contrario con l’appoggio dei verdi a von der Leyen. Ciò è coerente con una campagna elettorale in cui ha figurato in primo piano il rifiuto “dell’ideologia ecologista”. Ma anche qui ci sono notevoli perplessità. In diversi paesi non solo i populisti, ma anche forze e governi di centro-destra e di centro hanno raccolto ben prima delle elezioni le reticenze di una parte dell’economia, dell’agricoltura e dell’opinione pubblica verso un green deal giudicato troppo costoso e vincolante. Meloni era quindi in un certo senso in buona compagnia. Tuttavia, bastava una lettura attenta del discorso programmatico della nuova Presidente per vedere che il Green deal annunciato nel 2024 e pur ribadito con forza nei suoi obiettivi, è più pragmatico e per molti aspetti diverso da quello concepito con Timmermans nel 2019. Tant’è vero che i verdi non sono stati unanimi nel voto e molti di loro l’hanno fatto meno per entusiasmo che per assicurarsi un posto a tavola. In fondo, un approccio che andava bene al Ppe che ha fatto una campagna molto critica sul Green deal, avrebbe dovuto convenire anche a Meloni. A meno che non abbia deciso di sposare una tesi dichiaratamente climato-scettica, posizione che in Italia è ormai solidamente occupata da Salvini. Ciò che sarebbe ovviamente inquietante.

C’è infine la tesi secondo cui Meloni si prepara semplicemente alla vittoria di Trump, il cui principale obiettivo a prescindere dai modi e dai contenuti, sarebbe sicuramente di dividere gli europei. Ci sono di questo alcuni segni nei commenti sulla situazione americana in alcuni media vicini al governo. Sarebbe un calcolo molto pericoloso per gli interessi italiani. Da un lato perché non è affatto detto che Trump vincerà. Dall’altro perché essere emarginata dal resto dell’Europa non aiuterebbe certo nel negoziato con Washington un paese che è particolarmente indietro sull’impegno relativo alle spese militare, mentre invece gode del secondo surplus commerciale con gli Usa dopo quello tedesco.

Le prossime sfide dell’Italia e l’evoluzione della prosa

Di fronte a queste incertezze, il buon senso ci dovrebbe incitare ad aspettare le prossime scadenze concrete prima di giudicare la qualità della prosa; che è poi ciò che conta. Nelle prossime settimane ci sarà la vicenda della designazione del membro italiano della Commissione e del suo vaglio da parte del Pe. Poi ancora due passaggi dell’intera Commissione al Pe e al Consiglio Europeo. Ancora più importanti saranno i primi atti della nuova Commissione, su cui Uvdl ha fatto promesse importanti per i primi 100 giorni. Ciò riguarderà in particolare l’immigrazione e il Green deal. Riguarderà anche, sul piano bilaterale, la gestione dei conti pubblici italiani, il programma di riduzione del debito e la messa in opera delle riforme legate al Pnrr. Ci sarà anche da decidere la posizione dell’Italia di fronte alla deliberata volontà della Commissione e di molti governi di aumentare l’isolamento di Orban. Altrettante scadenze per comprendere l’evoluzione della prosa. Più a lungo termine, ma non tanto, arriveranno sul tavolo le riforme necessarie alla realizzazione del nuovo allargamento. Fra queste, non si potrà eludere il problema dell’estensione del voto a maggioranza. Poi, ovviamente ci saranno state le elezioni americane.

Il labirinto emotivo di Meloni e il rischio dell’autoisolamento 

All’incertezza sulle motivazioni e gli obiettivi di Meloni si aggiunge l’inquietante sensazione che, parafrasando il bel libro di Dominique Moïsi, siamo entrati per i rapporti dell’Italia con l’Europa in una fase di “europolitica delle emozioni” da cui non sarà facile uscire. I media scrutano con affannosa attenzione ogni segno di indebolimento della posizione del paese in Europa. Persino la distribuzione delle vicepresidenze delle commissioni al Pe o una questione tutto sommato secondaria come la designazione da parte della Nato di un inviato per l’Africa. Anche la questione obiettivamente più importante del portafoglio al prossimo membro italiano della Commissione sta assumendo proporzioni aldilà del realismo. Che l’opposizione italiana amplifichi queste questioni è comprensibile, anche se ci si può interrogare sulla saggezza a medio termine di una simile tattica. Meno comprensibile è la reazione emotiva di alcuni membri del governo e della stessa Meloni a ogni episodio anche marginale; a conferma che l’Italia si troverebbe di fronte a un’Europa ostile che ci può solo vedere all’opposizione. Un’Europa che soddisferà le nostre legittime esigenze solo con lo scontro e non con il dialogo. Tutto ciò accompagnato dall’abuso di un presunto privilegio che ci spetterebbe in quanto unico “paese fondatore” dotato di un governo la cui stabilità è stata confermata dalle recenti tornate elettorali. Con un’opinione pubblica già troppo incline al “complesso di Calimero” sulle questioni europee e internazionali, è una deriva molto pericolosa. Tanto più pericolosa che i nostri partner europei sono ora privi di una chiara chiave di lettura della politica italiana. Fino a poco tempo fa nelle capitali alleate si parlava della possibilità, in realtà illusoria, di “melonizzare” Marine Le Pen. Ora si sentono privi persino del senso della parola “melonizzare”. Con il rischio quindi che i loro comportamenti aggravino invece di interrompere il circolo vizioso.

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