Due attacchi a muso duro in tre giorni della premier Giorgia Meloni al gruppo automobilistico franco-italiano Stellantis, nato dalla fusione tra Fiat e Psa, non è uno spettacolo frequente per la scena politica italiana. Non che la Fiat, fin dai tempi in cui governava l’avvocato Gianni Agnelli, non fosse spesso nell’occhio del ciclone ma erano altri tempi e Fiat, quella sì davvero egemone che spingeva l’Avvocato a dire che “ciò che è buono per la Fiat è buono anche per l’Italia”, non era quella di oggi. Per la verità non fu sempre vero che ciò che era buono per la Fiat lo era anche per l’Italia e anche allora la proprietà e il management della Fiat non mancarono di compiere errori, anche se l’onestà intellettuale impone di riconoscere non solo che la Fiat era la più grande azienda italiana e dava lavoro a un sacco di gente ma e che, malgrado il suo enorme potere, la famiglia Agnelli fu sempre molto rispettosa delle istituzioni democratiche italiane. E l’onestà intellettuale vorrebbe anche che, sia pure tardivamente, si riconoscesse la rivoluzione compiuta da Sergio Marchionne, l’ultimo grande manager della Fiat che non esitò a tagliare i ponti col passato, rifiutando i sussidi pubblici per la casa torinese. Ma oggi il punto non è riconoscere pregi e difetti di casa Agnelli ma capire perché la Meloni attacca a testa bassa Stellantis.
Meloni accusa di scarso patriottismo casa Agnelli ma non si chiede come mai tante società italiane quotate in Borsa hanno la sede legale all’estero
Le critiche sono molteplici ma, in buona sostanza, si accusa casa Agnelli di aver svenduto la Fiat ai francesi, di permettere a Stellantis di privilegiare gli investimenti in Francia rispetto a quelli in Italia, di aver tradito l’Italia spostando la base legale in Olanda. Sui primi punti, ricordando gli investimenti fatti in Italia e il contributo che l’export di veicoli Stellantis dà alla bilancia commerciale italiana, ha già risposto il Ceo di Stellantis, Carlos Tavares, che in estate aveva, curiosamente, dovuto difendersi dalle accuse del ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, che gli rimproverava di privilegiare l’Italia rispetto alla Francia. Per inciso ieri Tavares ha tagliato 600 posti di lavoro nella fabbrica francese di Mulhouse. Ma il punto cruciale dove affiora l’anticapitalismo alle vongole della premier è che la Meloni, come aveva già fatto con l’extratassa sui profitti bancari nell’estate scorsa, sembra non capire una logica molto semplice che è alla base di ogni multinazionale e cioè che gli investimenti vanno dove il mercato li rende più convenienti. La premier, e più rozzamente il ministro del Made in Italy e delle imprese, Adolfo Urso, reclamano che Stellantis non produce abbastanza in Italia e vorrebbero che producesse almeno un milione di veicoli l’anno. Desiderio sacrosanto che non risponde però alla replica del Ceo di Stellantis, secondo cui se gli incentivi promessi dl Governo fossero arrivati per tempo, lo stabilimento di Mirafiori avrebbe già prodotto di più e la soglia del milione di veicoli da produrre all’anno in Italia sarebbe più vicina.
Poi c’è l’altro aspetto delle accuse di Meloni a Stellantis e cioè quello dello spostamento all’estero della sede legale e fiscale. La premier dovrebbe forse chiedersi come mai non solo lo la Fiat ma altre 12 società italiane, tutte quotate in Borsa, hanno fatto la stessa scelta: non perché non amano l’Italia ma perché la Gran Bretagna come l’Olanda hanno un fisco più dolce, un mercato dei capitali più attraente e regole societarie più affini alle esigenze delle grandi imprese.
Tutti i guasti del sovranismo economico
Anziché demonizzare gli Agnelli e chi porta il domicilio societario all’estero, la premier dovrebbe chiedersi perché avviene tutto ciò e perché l’Italia – con il fisco, la pubblica amministrazione, le regole societarie, la giustizia, la scuola, le infrastrutture e la criminalità che si ritrova – non è un Paese per le imprese e soprattutto non lo è per le grandi imprese che sono sempre meno, a differenza di quanto succede negli altri Paesi europei.
Ma questo implicherebbe l’addio al sovranismo economico e al populismo casareccio e richiederebbe la capacità critica e autocritica di comprendere come funziona realmente il moderno capitalismo che ha sì bisogno di essere seriamente regolato ma non attraverso le invasioni di campo della politica. Già in estate la Meloni, ascoltando supinamente Salvini e assecondandone la pecoreccia demagogia contro le banche, aveva fatto sorgere il sospetto che la sua fosse una cultura anti-mercato, oggi gli sgangherati attacchi a Stellantis ne sono purtroppo la conferma.
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Gentile dott. Locatelli
A parte alcune espressioni che trovo francamente poco adatte ad un dibattito serio e rispettoso, le considerazioni esposte sono totalmente condivisibili. Mi riferisco al fatto che le imprese, specie poi se grandi e multinazionali vanno dove trovano convenienze . E purtroppo l’Italia spesso non è il luogo migliore per investire . E’ indicativo , ma anche scoraggiante, leggere che Stellantis non ha investito perché non sono arrivati gli incentivi. Ma sarebbero solo gli incentivi pubblici il mezzo per avere più investimenti ?
Credo che dare soldi pubblici a grandi complessi economici finanziari privati sia una strada perdente.
Quindi, oltre che migliorare tutte le condizioni ambientali come detto nell’articolo, penso che si debbano rivedere profondamente le condizioni creditizie per le imprese di qualunque dimensione e storia , supportando idee e progetti, rientranti in un grande piano nazionale di sviluppo. piuttosto che privilegiare solo chi presenta solidità finanziaria o legami politici relazionali di livello.