Nella produttività le medie imprese manifatturiere italiane non solo hanno risultati migliori di quelle di grandi dimensioni, ma hanno anche superato le loro omologhe francesi o tedesche. Lo dimostra il fatto che negli ultimi anni circa 210 sono passate in mani straniere, un quarto dei quali proprio a questi Paesi. Un risultato straordinario se si pensa che la nostra manifattura nel complesso accusa invece un ritardo del 17,9% rispetto a Francia e Germania. Ma se vogliamo continuare a correre sui sentieri dell’innovazione e dell’internazionalizzazione bisogna mettere mano alla governance. È quanto emerso nel XXI Rapporto “Leader del cambiamento: le medie imprese italiane nella quinta rivoluzione industriale” di Unioncamere, Area Studi Mediobanca e Centro Studi Tagliacarne.
“Le medie imprese industriali italiane sono la spina dorsale del capitalismo familiare italiano, come dimostra l’esperienza degli ultimi 25 anni. A ragione possono definirsi la locomotiva del nostro sistema imprenditoriale, rappresentando un fattore di resilienza e ammodernamento continuo del sistema produttivo, grazie ad una elevata capacità ad investire nella duplice transizione green e digitale, rispetto alla quale il capitale umano rappresenta l’asset intangibile più importante”. Lo ha detto il presidente di Unioncamere, Andrea Prete.
Medie imprese italiane e il rapporto con l’estero
La loro produttività è superiore del 21,5% rispetto a Germania e Francia. D’altra parte, nel confronto con i competitor stranieri, le nostre medie imprese si percepiscono svantaggiate in termini di struttura dei costi (50,5%), di efficienza della Pubblica amministrazione (30,2%) e di qualità della dotazione infrastrutturale del Paese (22%).
Un aspetto interessante riguarda il fatto che ricchezza e occupazione sono prodotte prevalentemente in Italia. L’88,2% non ha una sede produttiva all’estero e solo il 3% realizza in stabilimenti stranieri oltre il 50% dell’output. Il reshoring sembra pesare poco, con l’88,8% che si avvale di fornitori stranieri, ottenendo in media il 25% delle proprie forniture. Inoltre, la quota di vendite destinata all’estero è pari al 43,2% del fatturato.
Il sorpasso delle medie sulle grandi nonostante un fisco peggiore
Nel confronto con le grandi imprese manifatturiere, dal 1996 ad oggi, le medie hanno registrato migliori performance sotto molti punti di vista: hanno ottenuto una crescita del fatturato più che doppia (+108,8% contro un +64,4%), centrato un maggiore aumento della produttività (+53% rispetto al +38,6%) e garantito una migliore remunerazione del lavoro (+62,4% le medie, +57% le grandi).
Il rapporto osserva però che le migliori performance sono state realizzate in un contesto non sempre favorevole. È il caso del fisco: il tax rate effettivo delle medie imprese è oggi attorno al 21,5% contro il 17,5% delle grandi, ma in passato lo spread è stato anche più ampio, oltre 8 punti nel 2011.
Se nell’ultimo decennio le medie imprese avessero avuto la medesima pressione fiscale delle grandi avrebbero ottenuto maggiori risorse per 6,5 miliardi di euro.
Fatturato in crescita ma c’è l’ostacolo del passaggio generazionale
Con un rimbalzo del fatturato del 2021 (+19%), anche le prospettive il 2022 sono più che positive (+6,3%). Guardando al futuro, tuttavia, la staffetta generazionale rischia di rallentarne il cammino: il 47,2% delle medie imprese ha risolto il passaggio generazionale mentre il 17,4% lo sta affrontando, ma non ha terminato il processo e un 32,5% delle medie imprese coglie nel passaggio generazionale l’occasione per inserire manager esterni.
Le sfide principali: governance e duplice transizione digitale e green
I molteplici profili positivi delle medie imprese non devono però eludere le importanti sfide che restano sul campo. La necessità di essere allineati ai requisiti Esg riporta l’attenzione sulla governance. Alcune buone pratiche hanno diffusione ancora limitata: il codice di autodisciplina è adottato dal 35,3%, la presenza di consiglieri indipendenti nel board è limitata al 24,8%, l’esistenza di un Ceo esterno alla famiglia ricorre nel 16,8% dei casi.
L’incertezza geopolitica mette a rischio la continuità delle forniture e le medie imprese intendono porvi rimedio attraverso un mix di diversificazione del numero dei fornitori (79,7%) e di aumento di quelli di prossimità (29,8%), anche nazionali (27,4%).
Per quanto riguarda la duplice transizione digitale e green, il 52% delle medie imprese che ha investito negli ultimi cinque anni conta di superare nel 2022 i livelli produttivi pre-Covid. Una quota che scende al 35% nel caso di chi ha investito solo nel digitale e al 31% per le imprese che hanno puntato soltanto sul green, sino ad arrivare al 21% laddove non sia stato effettuato alcun investimento in questa direzione. Un elemento di competitività̀ di cui le medie imprese sembrano consapevoli: più̀ del 60% prevede, infatti, di investire nel triennio 2022-24 nelle tecnologie 4.0 e nel green, mentre appena il 15% stima di puntare soltanto sulla transizione digitale e un altro 13% solo sul green.
Ma anche la sostenibilità sociale premia le medie imprese: il 62% investe nel welfare aziendale, il 61% coinvolge i propri dipendenti nella attività di innovazione (nuovi processi, prodotti e modalità organizzative aziendali, ecc.), il 51% nella qualità delle relazioni umane e il 51% collabora con il settore della cultura per aumentare il benessere del territorio.
E il PNRR? 4 medie imprese su 10 ferme al palo
Il 59% delle medie imprese punta sul PNRR: il 40% si è già̀ attivato sui progetti a supporto diretto dei sistemi imprenditoriali, mentre il 19% ha in programma di farlo.
C’è però un altro 41% che non pensa di avvantaggiarsi delle opportunità̀ previste nel Piano. Esistono fattori sia interni che esterni che spingono maggiormente o meno ad attivarsi in tal senso. I primi riguardano il capitale umano, i secondi invece il rapporto con Istituzioni e Università̀, soprattutto quando sono coinvolti entrambi gli attori.
Focus sulla filiera agroalimentare
L’indagine analizza anche le performance delle medie imprese appartenenti alla filiera manifatturiera agroalimentare italiana (595) che hanno dimostrato una grande resilienza di fronte alla pandemia. Tra il 2019 e il 2020 il fatturato è cresciuto dell’1,5%, merito soprattutto dell’export (+3,6%); le vendite nazionali hanno chiuso con un +0,8%. Il 2021 ha consuntivato un +11% sul fatturato precedente e un +16% sulle esportazioni mentre, per il 2022, si prevedono incrementi del 5,1% per le vendite totali e del 4,9% oltreconfine. Naturalmente molto dipenderà dal contesto geopolitico in continuo mutamento.