Cosa hanno in comune una partita di Texas Hold’em e la crisi dell’eurozona? Innanzitutto il numero dei giocatori, che non può essere maggiore di sei. Basta contarli: Piigs e Germania completano il tavolo. Ma per l’occasione un posto aggiuntivo è riservato ai mercati finanziari.
Ci sono poi legami molto più sottili, a metà strada tra il poker e la teoria dei giochi, che possono dare qualche indicazione su come l’eurocrisi si evolverà. Grexit o Greuro? L’uscita di Atene dall’unione monetaria o la sua permanenza nell’area valutaria?
Antonio Guglielmi, analista di Mediobanca Securities, lancia una provocazione: ai due estremi se ne potrebbe aggiungere un altro, fantascientifico: se fosse Berlino a lasciare il tavolo e tornare al marco?
Una provocazione, certo, ma utile a delimitare un modello teorico-comportamentale che offra strumenti per indicare i veri limiti della strategia germanica per l’Europa. La sensazione è che Berlino sia determinata a spingere sull’intransigenza fino a quando sarà possibile, tirandosi indietro e chinando il capo ai Piigs un attimo prima che la nave affondi. Ma secondo alcuni, a quel punto potrebbe essere troppo tardi per invertire la rotta.
E’ dunque necessario indicare un limite oltre il quale il bluff tedesco non si spingerà. Guglielmi lo misura in punti base: quando il bund a sette anni renderà 145 punti in più rispetto ai livelli attuali (1,45% in termini percentuali), per Angela Merkel suonerà la campana, e un’inversione totale di tendenza si renderà non solo necessaria, ma conveniente.
Conveniente non tanto in termini economici a breve, ma di costo-opportunità nel medio-lungo periodo: se si dà per scontato che nemmeno la Germania sarebbe immune al crollo dell’eurozona (dal momento che Berlino vende nel Vecchio Continente il 70% del suo export), la scelta di chinare il capo alle rivendicazioni dell’europeriferia comporterebbe, per la locomotiva tedesca, il male minore. Basti pensare che, dall’inizio della crisi, Berlino ha impegnato, per limitare i danni del sisma economico, circa 600 miliardi di euro. Una cifra pari al 25% del Pil e forse superiore al costo della riunificazione, stimato nell’intervallo 400-800 miliardi. L’uscita di Atene dall’eurozona polverizzerebbe i contributi versati e scatenerebbe il panico bancario, mentre l’extra costo, qualora, dopo il 17 giugno, Atene riuscisse a formare un governo pro-euro, ammonterebbe a “soli” 50-100 miliardi aggiuntivi.
Ovviamente, la penisola ellenica andrebbe “ricompensata” con un ammorbidimento delle misure di austerità.
Finora, però, i mercati sono stati il più grande alleato della Merkel. La fuga verso gli asset sicuri ha portato allo 0,9% i tassi sul bund settennale. Perchè altri 147 punti base convincano il gabinetto teutonico a cambiare strada, i mercati finanziari dovrebbero iniziare a vendere i titoli sovrani di Berlino, oggi largamente sopravvalutati. Acquisiranno la consapevolezza che – in fin dei conti – nemmeno la Germania potrebbe sopravvivere da sola, qualora l’euro deflagrasse?
Anche il ritorno al marco danneggerebbe le esportazioni, senza contare lo spolvero di politiche protezionistiche in un’Europa al collasso. Finchè la finanza internazionale non farà i conti in tasca a Berlino il Governo tedesco non avrà alcun incentivo nel cedere il passo a politiche espansive, o di sostegno comune alla finanza periferica. Anzi, finora l’incentivo a rifiutarle è aumentato man mano che le tensioni sull’europeriferia si intensificavano, parallelamente a galoppanti record al ribasso dei rendimenti sul Bund.
La partita non è ancora finita: il mercato non è ancora andato “All-in”. Ma potrebbe farlo presto, svelando il bluff tedesco.