MEDIOBANCA, IL MERCATO CI SCOMMETTE: IL CALCIO DELLO SCARPARO DI TOD’S CI SARA’
Controsorpasso. Stamane, grazie alla piccola onda di acquisti speculativi su Mediobanca, la capitalizzazione di piazzetta Cuccia risale a quota 2.585 milioni. Un livello infimo, che risente del calo dei prezzi del titolo da un anno a questa parte nell’ordine del 46%, nonostante il rimbalzo dell’8% abbondante da mercoledì. Ma il “salto” procura ad Alberto Nagel una piccola soddisfazione: Mediobanca torna a capitalizzare un pelo di più della Tod’s di Diego Della Valle, scivolata in due giorni a quota 2.566 milioni.
Insomma, le voci su acquisti di Della Valle su Mediobanca fanno bene alla banca, assai meno alla navicella del made in Italy. Eppure, per ora, l’unico vero indizio di intenzioni bellicose da parte di don Diego sta nella sincerità, dimostrata da lui e solo da lui, al momento di sbatter la porta sia dal patto Rcs dopo il riassetto del cda da lui definito “il completamento di una frittata cucinata male” che dopo la defenestrazione di Giovanni Perissinotto, reo di disobbedienza nei confronti di Mediobanca: vuoi per l’amicizia con Roberto Meneguzzo di Palladio, vuoi per l’intenzione dichiarata di voler vendere la quota in Rcs, come gradito da Della Valle che si era dimesso dopo la sfiducia a Prissinotto.
E, per quanto riguarda via Solferino, il patron di Tod’s non condivide di sicuro il giudizio di Nagel (“abbiamo fatto tre passi indietro”). Al contrario, per le nomine si è seguito un “metodo scandaloso”, aveva detto il patron di Tod’s dopo le decisioni imposte da Renato Pagliaro e John Philip Elkan. “La Rizzoli non è una sala giochi dove uno si diverte e si fa venire delle idee estemporanee”. Facile immaginare, alla luce di quelle dichiarazioni, come don Diego abbia giudicato l’auto assoluzione di Alberto Nagel nell’intervista a La Repubblica (“in Rcs abbiamo fatto tre passi indietro”). Da questo ad immaginare un blitz del patron di Tod’s in Mediobanca, salotto buono in cui, nell’ottobre scorso, i soci (con il consenso dei manager) avevano promosso la conferma in cda di Lionella Ligresti al suo posto, il passo è breve. Ma la conferma, come è ovvio, ancora non c’è.
Restano due considerazioni. Non solo la posizione di Nagel è meno sicura che in passato, ma la struttura arcaica e barocca del patto non regge alle oscillazioni imposte dalla crisi. L’antitrust, ultimo esempio, ha appena ingiunto ad Unipol di non cedere le azioni di Mediobanca nell’ambito dei soci dell’”area B” come previsto dal patto (altrimenti l’unico acquirente naturale sarebbe Generali). Nel frattempo, la banca di piazzetta Cuccia dovrà liberarsi presto delle tante Fonsai in magazzino dopo il probabile “flop” dell’aumento di capitale. Non solo: fino a quando le “nuove” Generali potranno fare a meno di un aumento di capitale che consenta loro una politica di sviluppo per linee esterne, necessaria per non perdere contatto una vota per tutte da Allianz e Axa?
In questa cornice rinunciare all’apporto di Della Valle, l’unico che ha messo quattrini freschi in Rcs (assieme a Giuseppe Rotelli) sembra un lusso insostenibile. E probabilmente la pensano così anche Giuseppe Guzzetti e Giovanni Bazoli pronti a mettere i propri buoni uffici per difendere quel che resta dell’itaianità del triangolo Unicredit-Mediobanca-Generali. Di sicuro, qualsiasi iniziativa non potrà prescindere dagli unici protagonisti liquidi dell’economia italiana: lo stesso Diego Della Valle, Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica, presente sia in Generali che nel board Unicredit e magari Patrizio Bertelli, anima finanziaria di Prada, da sempre rivale di Della Valle.
A giudicare dai numeri, infatti, emerge con chiarezza il gran ribaltone di potere tra i signori del lusso e i manager in grisaglia, già padroni dell’economia, ma oggi in piena crisi. Ieri sera, in Borsa, l’intera Mediobanca valeva 2.446 milioni di euro. Visti i risultati economici, si capisce perché Della Valle non ci stia più a prender lezione dai maestrini Nagel o Renato Pagliaro, piuttosto che ascoltare quei nobili colleghi, vedi John Elkann o Giampiero Pesenti, che i titoli in Rcs li hanno avuti quasi a gratis o che in piazzetta Cuccia non mettono un quattrino dai tempi della vecchia lira.
Per carità, la stagione d’oro del lusso non è certo un’esclusiva di Della Valle, membro del board di Unicredit ma anche dell’ammiraglia Lvmh, il colosso di Bernard Arnault che nei primi sei mesi del 2012 ha registrato 1,6 miliardi di utili. Il settore sprizza salute un po’ dappertutto: in casa Gucci o in Bottega Veneta, filiali italiani di Ppr o in casa Richemont (Cartier, Van Cleef & Arpels, Montblanc e così via) e più ancora in casa dei “cinesi” di Prada, quotati ad Hong Kong con la benedizione di Banca Intesa. Per non parlare di Ferragamo, che dall’ingresso in Borsa ha messo su un incremento del 66 per cento.
La regola, per tutti, è una sola: oggi i Big del lusso non dipendono più dalla grande finanza. Al contrario, i leader del settore possono dettare le loro regole a quelli che furono i padroni dei mercati. Succede in Spagna, dove Inditex (vedi Zara) vale più del Banco de Santander; succede in Francia, dove Arnault e François Pinault rivaleggiano come mecenati, senza trascurare la presenza nella carta stampata. Non deve stupire, insomma, se il made in Italy mira alla leadership del sistema, senza complessi di inferiorità verso i salotti che furono buoni. La grande occasione Mediobanca l’ha sprecata ai tempi di Gemina, affidata all’epoca alla famiglia Romiti (quel “vizio” italico di privilegiare le grandi famiglie…) quando mise sotto tutela assieme i marchi della moda e l’editoria di via Solferino. Il risultato, si sa, fu pessimo.