X

Mediobanca e quel faro sui fondi comuni che non c’è più

Imagoeconomica

Beppe Scienza, professore di matematica e grande esperto di finanza del risparmio e della previdenza, mi ha riconosciuto indipendenza, serietà e onestà richiamando il periodo in cui fui a capo dell’Area Studi di Mediobanca (dai primi anni ’70 al 2015) alludendo in particolare all’indagine sui fondi comuni ora cessata (v. Il Fatto, 25/1/2021). Debbo ringraziarlo, ma sento il bisogno di chiarire i motivi per i quali la Mediobanca di Cuccia promuoveva quelle pubblicazioni e “teneva” un’area studi dedicata alle imprese. I “classici” uffici studi delle banche servivano a donare alcuni libri ai clienti; spesso si trattava di temi artistici (scultura e pittura), a volte di ausili agli operatori di Borsa (sintesi dei corsi delle azioni, dei dividendi, dei dati di bilancio delle società, e simili). Molte banche facevano pubblicità finanziando il Giro d’Italia. Enrico Cuccia si distinse perché volle disporre di un “unicum” anche in questo campo. Il suo ufficio studi doveva da un lato trasmettere un’immagine di competenza, dall’altro servire da aiuto e supporto all’attività operativa; quella della banca e quella del pubblico in generale.

Ma in una banca i conti dei clienti debbono essere tenuti riservati e per questo motivo l’ufficio studi di Mediobanca doveva lavorare e pubblicare temi delicati sfruttando solo le proprie risorse. Da un lato, gli analisti dell’Area Studi si presentavano come personale di Mediobanca, ancorché rigidamente separati dagli affari; dall’altro la banca fruiva sia dell’effetto immagine prodotto dalle pubblicazioni (ben superiore al valore dello spazio che le nuove edizioni occupavano sui giornali), sia della ricchezza di dati raccolti. La particolarità stava nel fatto che il lavoro veniva eseguito (e correttamente percepito dal pubblico) in totale autonomia. Si arrivava ai casi limite di imprenditori, come Caprotti e Berlusconi, che non usavano passare i loro conti alla banca, ma consentivano a darli solo all’Area Studi, sicuri che essi non sarebbero usciti dai cassetti degli analisti. L’attività copriva vaste aree dell’economia nazionale e dava vita a lavori che Mediobanca non teneva in esclusiva per sé, ma rendeva disponibili a tutti pubblicandoli. In tal modo aumentava la trasparenza del sistema e vi era pure un contributo all’educazione finanziaria. Il ritorno di questa attività “pubblicitaria” era pertanto un’immagine di assoluta competenza, correttezza e capacità innovativa: si va da chi sa e sa fare. Somigliava ad un monopolio, ma tale non era, per l’appunto, perché mancava l’esclusiva.

L’area studi (R&S e l’Ufficio Studi) ha introdotto numerose innovazioni. Nel mio periodo ricordo la classificazione e l’interpretazione dei bilanci secondo criteri usati dalla finanza internazionale, i margini successivi, i livelli di liquidità, l’identificazione dei debiti spesso oscurati nei documenti ufficiali, lo svelamento degli assetti di controllo delle imprese molto prima dell’emanazione delle attuali normative, gli studi di settore, le innovative tecniche di calcolo dei rendimenti obbligazionari, la creazione di un sistema di indicatori del mercato azionario dove i titoli erano pesati sulla base dei capitali flottanti (un criterio poi imitato da tutti i provider internazionali di indici di borsa), fino alla scoperta negli anni ’90 del “Quarto capitalismo”. Quest’ultima a seguito di un’indagine approfondita sulle imprese di media dimensione in partnership con Unioncamere. Imprese che un tempo venivano viste (anche in Mediobanca negli anni ‘50) poco efficienti e totalmente schiave dei grandi gruppi, ma che ora, dopo una storica trasformazione, costituiscono la parte più brillante della nostra manifattura. Si possono aggiungere i molti riferimenti internazionali con le indagini, uniche a livello mondiale nel loro genere, sulle maggiori imprese industriali del globo e sui gruppi bancari internazionali.

Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi erano i “committenti” di queste pubblicazioni. Chiedevano lavori a 360 gradi e io ho avuto la fortuna di poterli accontentare in cambio della più completa autonomia senza limitazioni di spesa (che peraltro ho sempre tenuto molto limitata). Si sono confrontate a lungo le qualifiche dei dirigenti di Mediobanca e dell’IMI. Quest’ultimo (la cui dimensione era multipla di Mediobanca) abbondava di ingegneri che sono entrati in via Filodrammatici solo dopo la morte del fondatore. Non servivano: sia perché non erano garanzie assolute di buone valutazioni delle strutture produttive, sia perché Mediobanca ha sempre usato confrontare i suoi clienti con i risultati dei rispettivi settori e delle imprese concorrenti sfruttando la base dati dell’Area studi. Il valore praticamente nullo dei finanziamenti insoluti nel periodo cucciano dimostra quanto fosse lungimirante e corretto quel metodo.

L’indagine ricordata dal Prof. Scienza va inquadrata nel contesto descritto. Così, in un periodo nel quale i fondi comuni avevano assunto grande importanza era necessario capire quali fossero le logiche delle loro gestioni e i rispettivi risultati.

Intorno al 1990 Vincenzo Maranghi mi chiese di ideare una pubblicazione che potesse dare le risposte. Mediobanca doveva collocare azioni e obbligazioni sui mercati: si dovevano capire le reazioni del contesto in cui quelle operazioni sarebbero state realizzate. Quell’indagine non fu pertanto ideata per “fare dispetti” ai gestori di fondi (una delle tante accuse). Tant’è che la mia prima mossa fu quella di proporre un lavoro in collaborazione con gli stessi gestori i quali avrebbero comunicato a R&S le statistiche di base ottenendo poi, a costo zero, i risultati delle elaborazioni. In tale intervento mi sostenne Diego Galletta, che era stato a capo del Servizio finanziario e, dopo il pensionamento, era stato chiamato alla Presidenza della società di gestione fondi della Cariplo. Ricordo che tornò letteralmente sconvolto dalla riunione che doveva decidere per il sì o il no. Contrariamente alle nostre attese, nessun gestore era disposto a collaborare perché quelle statistiche dovevano essere tenute riservate. Ripiegai allora su un approccio diverso. Avevo collaboratori splendidi nella rielaborazione dei dati di bilancio: pensai pertanto che fosse naturale affrontare le dinamiche del settore aggregando i dati dei rendiconti di gestione che dovevano essere pubblicati per legge.

La prima edizione uscì nel 1992 in forma di tabelle inserite all’interno del nostro storico libro “Indici e dati”. Praticamente nessuno se ne curò. Quel libro stava assumendo una dimensione eccessiva e allora decisi di alleggerirlo scorporando l’indagine sui fondi in un libretto separato. Ciò avvenne nel 1998, ma questa volta si scatenò un putiferio perché ci si accorse che il rendimento dei fondi era inferiore a quello dei Bot; un titolo di Stato dal quale i risparmiatori (pressati dalle banche) stavano uscendo senza capire troppo il perché. Restai molto colpito dalla reazione dell’associazione dei gestori che pretendeva di conoscere i nostri studi in anteprima: come potevo farlo se non li davo nemmeno ai colleghi di Mediobanca? Mi ero macchiato di un peccato di lesa maestà! Curiosa la reazione dei più importanti gestori i quali dichiararono che questo risultato (e cioè che i Bot rendevano più dei fondi nonostante fossero assai meno rischiosi) o era “da escludere” oppure “non tornava” o “non quadrava”. Il Presidente di Assogestioni cominciò una vera e propria guerra contro l’ufficio studi di Mediobanca accusandoci senza mezzi termini di sbagliare e di non conoscere il corretto metodo di calcolo dei rendimenti. Forse non aveva letto Sun Tzu e la sua arte della guerra: fronteggiai agevolmente questi rozzi attacchi i quali beneficiavano del supporto di pareri resi pubblici da Prometeia, da un docente della Bocconi e dai consulenti della McKinsey. Questa si espose forse troppo, testimoniando – tra l’ilarità generale – che i fondi italiani erano i meno cari in Europa. Gli studiosi più seri ci sostennero sul piano metodologico, ma furono ovviamente dimenticati. Mi resta il bel ricordo di quanti telefonavano per manifestarci la loro vicinanza e, soprattutto, degli amici che attendevano di andare in ferie per “gustarsi” le nuove puntate di questa assurda “guerra” di metà luglio.

Forse fu un bene che i gestori avessero rifiutato di collaborare alla nostra prima proposta e furono anche un bene i “deliranti” comunicati di Assogestioni in risposta ai quali dovemmo approfondire numerose caratteristiche di quelle gestioni: un costo troppo elevato addebitato agli investitori, rendimenti che infliggevano ai sottoscrittori dei fondi una enorme distruzione di ricchezza nel lungo periodo, rendimenti che venivano battuti regolarmente dai benchmark scelti dagli stessi gestori, un turnover del patrimonio esagerato con corrispondente eccesso di commissioni di negoziazione pagate alle banche incaricate della compravendita dei titoli. Non avrei mai potuto pubblicare altrimenti tutti quei dettagli senza avallare la falsa tesi del “dispetto”.

Ricordo uno dei tanti comunicati del Presidente di Assogestioni, quello del 12 luglio 2002 seguìto all’audizione di Vincenzo Maranghi alla Commissione Attività Produttive della Camera dei deputati: “Spero, comunque, che tra i soci e la stessa dirigenza di Mediobanca vi sia ancora la volontà di affrontare un discorso fuor di polemica [sic!] per contribuire effettivamente allo sviluppo e al miglioramento del sistema finanziario italiano”. Singolare epilogo quello di oggi, dopo quasi un ventennio! La “dirigenza” giovane di allora è ora al comando della nave, mentre tra i soci vi sono stati avvicendamenti. Tendono a prevalere i portatori di interessi “propri”, più che dell’istituzione. Non pare che si aspiri più ad essere un unicum, ma che si cerchi un posticino in mezzo alla folla dei gagneurs d’affaires. Il mondo della finanza cambia spesso: non sempre in meglio.

°°°°L’autore è stato il Responsabile dell’Area Studi di Mediobanca ai tempi di Cuccia e Maranghi

Related Post
Categories: Commenti