La premiata ditta Monge di Monasterolo Bormida, leader italiano degli alimenti per animali, ha senz’altro fatto un ottimo affare quando, con un investimento di 57,8 milioni di euro, è salita lo scorso novembre nell’azionariato di Mediobanca poco oltre la soglia delll’1% del capitale, accumulando un pacchetto che, ai prezzi attuali, vale attorno ai 100 milioni. Ma gli eredi del piccolo impero del pet food, solida realtà familiare che quest’anno fatturerà attorno ai 300 milioni di euro destinando a riserva tutti gli utili (i debiti sono largamente sotto la barriera dei dieci milioni) probabilmente non si aspettavano di esser chiamati a partecipare al risiko del potere finanziario, nel bel mezzo di una sfida che, commenta Equita, “è assai vivace dal punto di vista speculativo”.
E invece saranno proprio i Monge, che da sempre investono una parte dei profitti nella banca di piazzetta Cuccia (tra i leader europei per la generosità dei dividendi, fino al 6,5% certifica stamane la Bce), i cavalieri bianchi (o, dato il mestiere, i cani da guardia) chiamati da Alberto Nagel per rimpolpare il patto di consultazione dei soci, sceso sotto la soglia del 10 per cento, dopo che Edizione Holding, la cassaforte dei Benetton, si è tirata indietro dal patto di consultazione “light” che raduna i soci più vicini al management in contrapposizione alle armate radunate dalla Delfin di Leonardo Del Vecchio, di gran lunga il primo socio poco sotto il 20% e dall’alleato Francesco Gaetano Caltagirone, salito al 5% per dar man forte al patron di Essilor-Luxottica. Il motivo? Parafrasando i fratelli Rosselli si potrebbe infatti dire ”oggi in Mediobanca, domani in Generali” la vera posta in gioco della madre delle sfide della finanza italiana che ha spinto le quotazioni delle Generali ai massimi dal 2010 e quelle di piazzetta Cuccia, oggi +0,9%, al top .
Ma adesso? In vista della prossima tappa, l’assemblea di Mediobanca del 28 ottobre (la data scelta da Enrico Cuccia in spregio all’anniversario della marcia su Roma dell’odiato duce), i contendenti schierano sulla scacchiera i pezzi. A romper la tregua è stata Delfin chiedendo di integrare l’ordine del giorno dell’assemblea proponendo di “eliminare il requisito statutario secondo cui tre amministratori (nel caso in cui il consiglio abbia più di tredici componenti) devono essere dirigenti del gruppo Mediobanca da almeno tre anni” e “altresì di incrementare il numero degli amministratori di minoranza”, con la previsione che “più liste possano concorrere alla nomina di tali amministratori”. Un siluro contro Nagel? Ovvia conclusione, tanto ovvia che il robusto team dei consulenti di Del Vecchio (l’avvocato Sergio Erede e Vittorio Grilli, oggi JP Morgan, in testa) ha subito messo le mani avanti: “La proposta non persegue lo scopo di sostituire gli attuali amministratori o manager della banca, quanto piuttosto quello di assicurare che, d’ora in avanti, questi operino all’interno di un quadro di regole di corporate governance coerente con le best practice e siano fortemente incentivati a porre al centro la creazione di valore per tutti gli azionisti, lasciando al consiglio di amministrazione e agli azionisti, come accade in qualsiasi altra società, il diritto di decidere in ultima istanza chi debba gestire la banca“. E Nagel sembra stare al gioco: ne parleremo presto, fa sapere lo staff del banchiere, nell’ambito della riforma della governance. Ma nel frattempo affila le armi chiedendo agli amici, dai Gavio al gruppo Lucchini, di rimpolpare il patto in attesa dell’assemblea. In quella sede echeggeranno le domande che finora sono rimaste sottotraccia.
Vi sta bene, chiederanno gli amici di Nagel, una banca che rinuncia alla sua indipendenza? Un istituto che, come è avvenuto nelle trattative per Banca Generali, subisce un veto da alcuni azionisti, peraltro decisi a vendicare lo stop subito a suo tempo sul fronte della città della salute, il mega progetto di Del Vecchio frenato da Mediobanca? Ma, si risponderà dal fronte Caltagirone/Del Vecchio, che prospettive ha Mediobanca se continuerà a limitarsi a succhiare i dividendi di Generali, ancor oggi la metà dei profitti di una banca d’affari che di grossi affari non fa? Generali, costretta a non chiedere aumenti di capitale per non urtare gli intessi del suo socio bancario, continua a veder sfilare sotto gli occhi le occasioni per crescere senza salire mai sul tram giusto. E così Allianz, Axa e Zurich sono ormai avanti anni luce mentre, sotto la guida di Donnet, il Leone non va oltre i confini del Nord est, quelli di Cattolica.
Saranno questi i temi di fondo della partita della prossima primavera, quando si tratterà di confermare o meno il manager francese caro a Nagel, o conquistare la Bastiglia di Trieste, dopo aver indebolito le difese di Generali. Come andrà? Per ora, di certo c’è che Del Vecchio e Caltagirone non mollano. E Francesco Gaetano Caltagirone ha acquistato un altro 0,19% di Generali secondo le comunicazioni di internal dealing relative a operazioni fatte da Mantegna ’87 Srl (500mila titoli) e da Fincal (2,5 milioni di azioni). Il totale delle operazioni fa salire l’imprenditore al 6,38% portando il patto di sindacato con Delfin e Fondazione Crt al 12,80%.
Certo non mancheranno compromessi, ma dev’essere ben chiaro che gli equilibri sono cambiati una volta per tutte. Nagel, però, ha reagito da par suo, rilevando con un prestito titoli (costo meno di 10 milioni) il 4,22% di Generali, graziosamente raccolto da Bnp Paribas tra i suoi clienti, a partire dai Axa, cui probabilmente non piace il risveglio del Leone, possibile protagonista di merger sul mercato.
Insomma, di qui al prossimo aprile farà caldo sulle reti di Piazza Affari. E non solo: una partita di quel calibro, che promette di modificare la natura stessa del modello del credito in Italia, spiazzando la tradizione bancocentrica, non può non avere tra i protagonisti la politica, a partire da Mario Draghi. Ma è presto per fare anticipazioni perché, come ha giustamente sottolineato Marcello Messori, “per il momento né gli attuali gestori di Mediobanca, né gli attuali gestori di Generali, né i loro azionisti più attivi hanno reso pubblici progetti strategici che chiariscano quale potrebbe o dovrebbe essere il modello di attività delle due società nei mercati finanziari europei del post-pandemia”. “Al riguardo – ha aggiunto – mi limito a sottolineare due punti. L’economia italiana potrà ridurre i suoi ritardi rispetto ai Paesi forti dell’euro area e collocarsi su un sentiero di sviluppo sostenibile, solo se saprà avvalersi di mercati finanziari che indirizzino l’ingente ricchezza del Paese verso il sostegno di una radicale riorganizzazione delle imprese industriali. E al riguardo è essenziale che, insieme ad altri rilevanti gruppi finanziari italiani ed europei, Mediobanca e Generali svolgano ruoli attivi”.
E vinca il migliore.