Mai come in questi ultimi tempi l’interesse verso le aziende italiane è cresciuto in maniera significativa. In parte ciò è dovuto alle performance di tutto rispetto delle imprese del Made in Italy nel mondo che hanno proposto soluzioni e formule vincenti sul mercato, diverse e più competitive rispetto ai consolidati concorrenti stranieri. Le aziende italiane sono diventate player globali in maniera più esplicita, favorendo processi di acquisizione e ponendosi all’attenzione come una formula originale, per certi versi iconica, di modello di management. Il dibattito sul potenziale di un «modello italiano di management» tuttavia è ancora molto timido, rimane ancorato a categorie molto tradizionali e a una lettura per differenza rispetto a standard e benchmarking ricostruiti sulla copiosa letteratura manageriale, condizionata dall’osservazione esclusiva del funzionamento della grande impresa multinazionale.
Esiste, sia in letteratura sia nelle pratiche, un’opinione convergente sul fatto che non esista un differenziale italiano in termini di management. Il dato che sembrerebbe caratterizzare una certa specificità è il tratto familiare, che ovviamente non è solo italiano, considerato generalmente come un elemento da neutralizzare e non valorizzare. Attraverso questa chiave di lettura vengono spiegate le decisioni in chiave di crescita, governance e management. Nella sostanza il successo attuale è solo una coincidenza congiunturale fortunata di un fenomeno che non ha nulla di diverso e di particolare rispetto a meccanismi e logiche ampiamente studiati a livello internazionale.
L’opzione proposta nel libro “Medie eccellenti” di Luigi Serio, edito da Guerini e associati, è ovviamente diversa: in altre parole siritiene che esistano alcune condizioni proprie su cui riannodare le fila di una «rinascita» manifatturiera e che emergano alcuni tratti distintivi che possono contribuire a descrivere e forse, in prospettiva, a delineare i contorni di un possibile modello italiano di management.
Sullo sfondo restano alcune questioni irrisolte nel dibattito sull’evoluzione del sistema capitalistico italiano.
Una prima riflessione riguarda il tema della crescita. Il dibattito sul «nanismo» nel nostro sistema produttivo è nella sostanza senza soluzione di continuità. Da una parte permane una prevalenza a ritenere la dimensione piccola-media un limite, un problema da affrontare e una sfida nei prossimi anni. La lettura classica è quella di liberare l’impresa dai vincoli che frenano la crescita, di natura gestionale, organizzativa o finanziaria. Indicazioni diverse che giungono da una attività di ricerca specifica (cfr. fra tutti Boldizzoni, Serio Il Fenomeno Piccola Impresa, 1996) sono sempre ritenuti esiti di episodi virtuosi, in parte occasionali, di un sistema che continua a essere debole. I dati dicono altro e le letture presenti in questo volume sostengono questo punto di vista. Il problema non è essere grandi per essere competitivi, ma essere competitivi tout court. Il problema legato all’ampiezza dei mercati o alla leva finanziaria necessaria per essere presenti nel mercato globale può essere risolto in maniera diversa, ogni azienda sviluppa la propria opzione:
• chi si focalizza e diventa leader in un mercato geografico specifico;
• chi diventa l’attore principale di una nicchia e di una expertise unica;
• chi affida ad altri, vendendo, la ricerca di risorse fuori dalla portata attuale;
• chi attiva strategie di alleanze per condividere costi rischi e processi di apprendimento.
Oggi il tema delle economie di scala si sposta dalla produzione ai canali commerciali, area di maggiore flessibilità e di iniziativa condivisa. Su questo tema, seppur in maniera differente, tutte le prospettive di analisi presenti nel libro “Medie eccellenti” convergono. Gli studi di matrice più spiccatamente economico-manageriale definiscono confini più precisi, la «soglia» dell’impresa media riguarda più che una dimensione, una consapevolezza precisa del proprio business, dichiara il superamento da una dimensione puramente artigiana e «sdogana» in maniera chiara il profilo di impresa. In altre parole, esistono forme diverse per competere sul mercato; se la strategia è quella di adottare un comportamento tipico da grande impresa, presidio dei canali, efficienza dei fattori, investimento in risorse, la dimensione diventa critica; se il posizionamento sul mercato è altro e diverso dalla grande, ragionare in chiave di dimensione è fuorviante e sposta l’attenzione e la riflessione dalle questioni reali. Se oggi il tema è quello di essere attori attivi e simmetrici nelle filiere globali, il fattore abilitante è la competenza, meno la dimensione.
Una seconda riflessione riguarda l’imprenditore.
È la figura centrale e il tema di punta di tutti i saggi presenti in “Medie eccellenti”. Sia esso agente del cambiamento, sia esso potenziale «nuova borghesia produttiva», sia promotore di una tensione diffusa alla «bellezza», l’impresa media e l’imprenditore sono un legame indissolubile. Dai saggi emerge un imprenditore regista del tessuto connettivo su cui è costruito il vantaggio competitivo dell’azienda, difensore di un primato tecnico tecnologico, della comunità professionale sul cui sa¬pere si sviluppa e costruisce valore, gestore e/o partecipe di una filiera di relazioni che compete a livello globale e si sposta laddove ci sono le condizioni di mercato più favorevoli. Anche in questo caso il tema non è scegliere fra la proprietà e la gestione, è un unicum inseparabile in cui la costruzione del valore è nella tenuta dell’alchimia creata. E sempre più diffusa, in caso di vendita di aziende italiane, la prassi della nuova proprietà di chiedere la continuità del presidio di gestione; comprare una impresa piccola media significa comprare un brand, un sistema di relazioni che genera l’unicità e la bellezza del prodotto, ma soprattutto il capitale umano e sociale che lo sostiene. In questa prospettiva, la «presunta» difesa dell’italianità passa per la valorizzazione del tessuto sociale, non nel¬la regolazione e protezione di fenomeni di acquisto/vendite, che hanno sempre generato storture e interruzioni ai naturali flussi logici, sia in termini di difesa sia di dismissioni. La protezione deve riguardare ancora una volta le competenze, sicuramente meno la proprietà.
Una terza riflessione riguarda il modello organizzativo.Negli anni il modello «italiano» di management si è sviluppato intorno al ruolo dell’impresa guida che, in maniera bari-centrica e asimmetrica, ha regolato il flusso di relazione con la restante popolazione di impresa, a cui dare indirizzi e da cui trarre risorse in maniera flessibile, generando quello che Gianni Lorenzoni definiva in maniera esemplare «imprenditorialità limitata ma diffusa» (Lorenzoni G., L’architettura di sviluppo dell’impresa minore, il Mulino, 1990).
Le imprese guida sono nate nei distretti, hanno seguito le loro evoluzioni, sono state le protagoniste del processo di selezione naturale avuto dal nostro sistema imprenditoriale in questi anni, sono le reali testimonia! del Made in Italy nel mondo. Oggi pressioni competitive, nuovi mercati e tecnologie e consumatori diversi impongono nuove sfide e nuovi modelli organizzativi. Il processo di conoscenza sarà sempre più condiviso, le filiere più aperte e«conosciute», le elaborazioni di Big Data e l’affermazione delle tecnologie inserite all’interno del fenomeno Industria 4.0 cambieranno ancora una volta la forma del nostro sistema di relazioni che sarà sempre più simmetrico, condiviso e strategico. In altre parole, l’emergere dell’economia e dell’organizzazione a rete, finalmente non come icona per proteggere lo status quo, ma come strumento di strategia e creazione di valore e competitività nel tempo.