Come viene gestito il passaggio generazionale delle mid cap italiane, di solito aziende familiari amministrate dai fondatori ormai ultra 60enni? Ci pensano i fondi private equity. Che siano italiani o – più spesso – internazionali, il 2018 è stato l’anno del boom di operazioni con le medie imprese italiane, sia come numero (149), sia come valore complessivo: 17,6 miliardi. A rivelarlo è un report presentato a Milano dallo studio legale Gatti Pavesi Bianchi e realizzato in collaborazione con Unquote, società di analisi finanziaria del gruppo Mergermarket. Il dato del 2018 è certamente “dopato” dalla maxi operazione di Recordati, la cui quota di maggioranza assoluta è stata rilevata da CVC Capital Partners per 3 miliardi, e da quella che ha visto Italo passare al fondo americano Global Infrastructure Partners per quasi 2 miliardi. Ma la tendenza a “svezzare” le imprese, lasciandole sbocciare in mano a fondi spesso stranieri, sta proseguendo anche nel 2019, con cifre finora minori ma con 70 deal solo nel primo semestre, dunque in linea col 2018.
I motivi di questa impennata del private equity? Principalmente tre: l’occasione per le imprese italiane di svincolarsi da un management invecchiato e da successioni famigliari non sempre all’altezza; la possibilità per queste imprese, soprattutto manifatturiere, che pur rappresentano il lato vincente dell’Italia (negli anni della crisi, mentre il Pil ristagnava, l’industria italiana è cresciuta del 17% ed esporta quasi la metà dei prodotti, facendo del Belpaese il primo Paese europeo e quinto al mondo per surplus commerciale), di rilanciare gli investimenti, che sono l’unica nota dolente di un panorama – quello del tessuto produttivo italiano – che ha continuato a correre nonostante tutto; la possibilità per i fondi private di rilevare aziende di qualità e di successo a prezzi convenienti.
“Per le aziende più grandi, le large cap – spiega Gianni Martoglia, equity partner di Gatti Pavesi Bianchi – di solito le offerte sono molto alte, perché questo è un mercato ‘seller-friendly’ più che ‘buyer-friendly’: gli offerenti sono tanti e le operazioni poche (nel 2018, su 149 totali, solo una decina riguardavano aziende grandi, ndr), quindi la valutazione arriva ad essere 11-12 volte l’Ebitda. Non lo stesso però vale per le mid cap, che vengono valutate solo 8 volte l’Ebitda. Questa è una anomalia italiana: nei Paesi del Nord Europa, ma anche in Francia, le mid cap attirano anche loro offerte pari a 11-12 volte l’Ebitda”. Che il problema sia come al solito l’incertezza politica e il rischio-Italia? “In realtà in Italia ci sono due mondi che coesistono: l’economia generale è stagnante, ma il manifatturiero (che rappresenta il 28% delle operazioni private equity del 2018, per il 33% del valore totale) è in salute. I fondi si portano a casa un buon prodotto che ha già un buon mercato. Al resto (investimenti, tecnologia, etc) ci pensano loro, intervenendo sulla managerizzazione dell’azienda e sugli investimenti”.
Dunque, far fuori i figli incapaci per crescere: gli imprenditori delle medie imprese a conduzione familiare, oltre la metà dei quali ha più di 60 anni, stanno iniziando a recidere i cordoni ombelicali. “Il cambiamento demografico all’interno delle imprese familiari in Italia – sostiene ancora Martoglia – ha creato la necessità non solo di una nuova leadership, ma anche di investitori che possano aiutarle a proteggere i loro lasciti e a navigare nella globalizzazione e nella digitalizzazione. La globalizzazione consente ai capi famiglia di diversificare le loro partecipazioni anche fuori dall’Italia, in un periodo meno favorevole vista l’instabilità politica. I private equity in questo senso sono partner ideali”.
Le 10 maggiori operazioni del 2018, oltre alle già citate Recordati e Italo, hanno tuttavia visto protagoniste anche alcune realtà italiane: ad esempio l’utility RTR è stata rilevata da F2i per 1,3 miliardi, per Alpitour invece Tamburi Investment Partners ha offerto 470 milioni, mentre Investindustrial ne ha messi sul piatto quasi 300 per Italcanditi.