Con il nostro libro “Una medicina che penalizza le donne”, edito da San Paolo, vogliamo mettere in evidenza quanto il genere femminile sia penalizzato e in definitiva danneggiato nel campo della medicina assistenziale e della ricerca scientifica. ln passato le differenze e le difficoltà iniziavano già nell’accesso alle scuole di medicina, essendoci la percezione generale che il medico fosse un lavoro per i maschi. Oggi la situazione è cambiata, ma permane il pregiudizio che alcune specializzazioni, come ad esempio ortopedia o neurochirurgia, siano assolutamente riservate a loro. Nei nostri ospedali, in generale, i chirurghi sono più maschi che femmine.
Le cose non cambiano nell’attività accademica, dove la carriera per le donne presenta molte difficoltà. E non solo nel nostro Paese, Nel Regno Unito, ad esempio, le donne che insegnano in Università rappresentano il 45,5%, del totale. In Italia, pur essendo importante la presenza delle donne in Università, su 87 rettorati solo 6 sono retti da donne. In uno studio condotto in Australia si dimostra che le donne sono penalizzate anche per quanto riguarda i fondi per la ricerca. Infatti, a fronte di un analogo numero di domande, i maschi hanno successo nel 56,5% rispetto al 43,5% delle donne. In termini di finanziamento, le differenze si accentuano, perché i maschi ricevono il 61,6% dei fondi disponibili, contro il 38,4% per le femmine. Anche in campo più clinico, nel Regno Unito, come in altri Paesi, fra i medici le donne sono il 44%, mentre fra gli infermieri sono l’89%.
Esiste anche il cosiddetto “muro” della maternità, che penalizza notevolmente le donne nella loro carriera e che impedisce di svolgere, come accade ai maschi, attività contemporanee di assistenza e ricerca.
Anche a proposito della recente pandemia, parecchi studi documentano problemi per le donne, che in molti casi hanno dovuto abbandonare le attività di ricerca per occuparsi dei figli.
Un altro importante fattore, spesso ignorato dal governo italiano e dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN), è la povertà presente nella nostra popolazione, sovente sostenuta dalla scarsa scolarità. L’Italia è uno dei Paesi con più alto livello di povertà. Se si considera la popolazione con grave deprivazione materiale, il nostro Paese è in cima alla classifica, con il 10,1%, con grandi differenze regionali, rispetto alla Svezia (1,1%), alla Germania (3›40/o), alla Francia (4,1%), il che comporta gravi conseguenze anche per la salute, ma ancora una volta in particolare per le donne. Significativo, qui, un altro dato comparativo, che dice che la bilancia non pende tutta a sfavore dell’Italia, ma che non consola circa la sostanza del problema di disuguaglianza che stiamo evidenziando: infatti, nel Regno Unito per i poveri la durata di vita sana si accorcia di 16,2 anni per gli uomini e 16,9 per le donne, mentre i dati italiani, migliori ma con uguale tendenza, mostrano che per tutta la popolazione povera la durata di vita sana si è accorciata di 6 anni per i maschi e 8 anni per le femmine.
Caratteristiche specifiche delle patologie per le donne
Occorre premettere che sesso e genere non hanno lo stesso significato, anche se per il momento non vi sono chiare definizioni. In generale, per sesso si intende l’insieme delle differenze anatomiche, biologiche, fisiologiche e soprattutto genetiche caratterizzate da un doppio cromosoma X nella femmina e da un cromosoma X e uno Y nel maschio. Per genere si intendono i caratteri relazionali che persone o società attribuiscono al maschio e alla femmina, indipendentemente dal loro sesso.
È comunque molto difficile separare sesso e genere, date le loro complesse interazioni. Nonostante considerevoli progressi, comunque, gli aspetti psicologici e sociali non sono stati ancora integrati nella medicina clinica. Pertanto, in questo libro i due termini verranno utilizzati spesso come sinonimo, vista la difficoltà di separarli.
Poco presenti, sia nella pratica clinica che nella ricerca, sono le attenzioni alle caratteristiche delle malattie rispetto al genere, quando si tratti di patologie che sono presenti sia nei maschi che nelle femmine.
Uno studio condotto in Australia sulla insufficienza renale, mostra che la mortalità è più alta del’11% nelle femmine, con una diminuzione di 4 anni di vita rispetto ai maschi. L’emodialisi avviene per il 7% più frequentemente nelle donne e, sempre in presenza di insufficienza renale, le donne hanno casi di infarto cardiaco ad essa collegato per il 7% in più dei maschi.
Senza entrare nei particolari, va sottolineato che le donne hanno più ictus cerebrovascolari non emorragici nella misura del 40-60%, a seconda dell’età, a cui corrisponde, come fattore di rischio, anche un maggior tasso di ipertensione. Altri fattori di rischio più frequenti nelle donne rispetto ai maschi sono l’obesità e la mancanza di esercizio fisico, che hanno un grande impatto sul diabete di tipo 2 e sulle malattie cardiovascolari. Per quanto riguarda il diabete, a parità di condizioni, le donne hanno un maggior rischio di infarto cardiaco rispetto al maschi. Nelle donne con meno di 75 anni la mortalità e la re-ospedalizzazione dopo un’insufficienza cardiaca acuta e fibrillazione atriale è del 42%, mentre nei maschi è solo del 20%.
Un nuovo fattore di rischio per la donna, per una cattiva realizzazione delle “pari opportunità”, è rappresentato dal fumo di sigarette. Le donne fumatrici sono circa il 20% sul totale e ciò ha fatto aumentare i casi di tumore al polmone nelle femmine, a differenza dei maschi in cui si assiste a una continua diminuzione alla dipendenza da fumo. Il tumore al polmone era una malattia quasi assente nelle donne quando si astenevano dal fumo. Il fumo induce anche un aumento di malattie polmonari e cardiovascolari. Va notato che mentre nei maschi il fumo è più frequente nelle classi socio-economiche più basse, nella donna si osserva l’opposto.
Pochissimo è noto circa la composizione del microbioma intestinale, a cui si ascrivono molte interazioni con tanti organi, cervello incluso, e l’azione di molti farmaci, che possono venire metabolizzati da alcune classi batteriche e non da altre. La composizione del microbioma intestinale si realizza più velocemente, dal livello puberale a quello dell’adulto, nella donna rispetto al maschio, ma questa è solo una delle fondamentali differenze che non siamo ancora abituati a prendere in sistematica considerazione nel trattamento delle patologie.
La ricerca sperimentale non tiene conto della differenza di genere
La maggior forma di penalizzazione per le donne riguarda indubbiamente tutto il campo della terapia, con particolare riferimento ai farmaci in termini di dosi, efficacia e tossicità. La scarsa attenzione per il genere femminile comincia dagli studi sperimentali in vitro, a livello cellulare. Molti dei ricercatori che utilizzano dei modelli cellulari per gli studi preliminari di sviluppo di un farmaco, non valutano gli effetti tenendo conto dell’origine maschile o femminile delle cellule. Eppure, quando gli studi vengono realizzati in modo corretto, si può osservare che le cellule dei due generi non si comportano nello stesso modo. Ad esempio, i neuroni maschili sono molto più reattivi rispetto ai neuroni femminili allo stress ossidativo, come pure ai neurotrasmettitori eccitatori. I neuroni femminili sono invece più sensibili a tutti gli stimoli che inducono apoptosi, una forma di morte cellulare programmata.
Se non si utilizzano consapevolmente cellule dei due generi, gli studi che avvengono in seguito partono dal principio, erroneo, che non vi siano differenze.
Analogamente, gli studi sugli animali non prendono in considerazione le differenze di genere, perché nella maggioranza dei casi si utilizzano animali maschi. Ad esempio, se si raccolgono i dati della sperimentazione animale sulle statine, farmaci che diminuiscono il colesterolo nel sangue e il rischio di malattie ischemiche cardiache, si può osservare che sono stati studiati prevalentemente nei maschi.
Infatti, solo 4 su 18 studi condotti nel topo erano realizzati su femmine; 3 su 61 studi eseguiti nel ratto consideravano femmine; 3 su 41 studi condotti nel coniglio erano nella femmina.
Questa caratteristica si estende anche ad altri campi della biologia, delle neuroscienze, dell’endocrinologia, a meno che non si tratti di malattie esclusive della donna o di campi di indagine come la riproduzione.
La ricerca farmacologica, come se fossimo tutti uguali
Se l’attenzione per il sesso femminile è secondaria a livello sperimentale, le cose non sono soddisfacenti neppure a livello clinico. Intanto occorre ricordare che non necessariamente la medesima dose dello stesso farmaco, anche normalizzata per il peso corporeo, va incontro agli stessi processi nell’organismo femminile e maschile. Occorre tener presente che la risposta ai farmaci, anche nella donna, è multifattoriale. Non dipende solo dalle caratteristiche del farmaco, ma da una serie di fattori derivanti dal paziente che includono età, peso corporeo, fattori genetici e ambientali, processi metabolici, il tipo di cibo, l’esposizione agli inquinanti, i fattori emozionali, l’etnicità, gli stili di vita, nonché l’esposizione ad altri farmaci e a contraccettivi che modificano l’assetto ormonale.
La farmacocinetica, che descrive il percorso di un farmaco dall’assorbimento alla eliminazione dall’organismo, ci dice, ad esempio, che lo svuotamento gastrico è più lento nelle femmine come pure è più basso il livello gastrico dell’alcol-deidrogenasi, un enzima coinvolto nel metabolismo di alcuni farmaci. Poco conosciuto è l’impatto del microbioma intestinale sul metabolismo e sulla captazione dei singoli farmaci. Il volume di sangue in cui si distribuisce il farmaco è minore nelle donne, ma cambia durante il periodo mestruale, mentre il flusso sanguigno è più elevato nella donna rispetto al maschio, per cui nell’unità di tempo una maggiore quantità di farmaco arriva agli organi.
Le concentrazioni di proteine plasmatiche, a cui si legano i farmaci, sono diverse nei due sessi e risentono del la concentrazione di estrogeni. Il metabolismo epatico dei farmaci si estrinseca attraverso proteine denominate PgP, che trasportano i farmaci all’interno e all’esterno delle cellule e attraverso una serie di Citocromi P450, che hanno specifici effetti nei confronti di varie classi di farmaci.
Questi enzimi sono in alcuni casi più elevati nel maschio. Come d esempio per il CYP1A2, che metabolizza la caffeina, la lidocaina o la clozapina mentre in altri casi sono più elevati nella femmina, come ad esempio per il CYP2A6, che metabolizza la nicotina, il triazolam e il midazolam.
In aggiunta, differenze sono note per i processi di coniugazione dei farmaci, quali acetilazione e glucuronazione. Va sottolineato che il risultato dell’azione di tutti questi enzimi può generare metaboliti inattivi oppure metaboliti attivi e quindi condizionare l’effetto funzionale del farmaco. Questi enzimi determinano spesso interazioni fra farmaci, perché un farmaco può bloccare un citocromo P450 per cui un altro farmaco che agisce sullo stesso citocromo non può essere metabolizzato e può indurre effetti tossici. Alcuni farmaci, ad esempio i barbiturici in trattamento cronico, sono in grado di aumentare l’attività di alcuni citocromi P450 (induzione), aumentando il metabolismo di altri farmaci e riducendone spesso l’efficacia.
Analogamente, il fumo di sigaretta è un induttore di cui si dovrebbe tener conto quando si somministrano farmaci a fumatori o fumatrici. Altre differenze possono esistere per i farmaci liposolubili, che tendono ad accumularsi nel tessuto adiposo, più diffuso nella femmina rispetto al maschio.
L’insieme dei processi sopradescritti determina le concentrazioni del farmaco nel sangue, la sua durata d’azione e, in definitiva, le concentrazioni che determinano l’effetto sul target e la tossicità. Per dare qualche esempio, l’escrezione renale del verapamil è minore nella femmina rispetto al maschio, il che determina una maggior permanenza del farmaco nella femmina, con il risultato di un più evidente effetto nel ridurre la pressione arteriosa e le pulsazioni cardiache. Il diazepam libero dal legame alle proteine è più elevato nella femmina rispetto al maschio. L’ossicodone raggiunge livelli ematici più alti nella femmina rispetto al maschio.
Questa serie di osservazioni, certamente parziali e incomplete, suggeriscono la necessità che gli studi clinici di fase 1, quelli che devono definire la farmacocinetica e le dosi massime tollerate che verranno poi utilizzate nelle altre fasi della ricerca, debbano essere effettuati su gruppi separati di maschi e femmine, come pure dovrebbe avvenire per gli studi di fase 2, che devono stabilire su gruppi più estesi se il farmaco in esame mostra caratteristiche che ne permettano il trasferimento alla fase 3, la più importante
della ricerca clinica, che dovrebbe stabilire efficacia, tossicità e confronto con altri principi attivi già disponibili per le stesse indicazioni.
I dati delle fasi 3, anche se stanno migliorando, non permettono di eseguire valutazioni differenziali su efficacia e tossicità per la maggior parte dei farmaci attualmente in uso nell’assistenza clinica. Infatti non in tutti gli studi le femmine sono presenti. Ad esempio, nel 64% dei casi di studi in neurologia sono presenti le femmine, mentre negli studi cardio-renali solo nel 4%, negli studi polmonari nel 59%, negli studi gastroenterologici nel 40%, negli studi psichiatrici nel 33%.
Tuttavia, anche quando le donne sono presenti nello studio, esse sono in minoranza, molto spesso fra il 20 ed il 30% dei partecipanti totali agli studi clinici controllati, Ciò determina in molti casi l’impossibilità di stabilire alla fine dello studio efficacia e tossicità per i due generi. Su 628 studi da noi esaminati, ben nel 73% non erano riportati effetti specifici per i due sessi, con il risultato che le femmine vengono di fatto trattate in accordo con i risultati ottenuti nel maschio, sia in termini di dosi che di tempi di somministrazione assumendo che efficacia e tossicità siano gli stessi.
Simili considerazioni possono essere fatte per la inclusione di bambini e di anziani negli studi clinici controllati. Data la difficoltà degli studi clinici nel differenziare in modo ottimale efficacia e tossicità nei maschi e nelle femmine, è molto importante che i protocolli considerino anche la diversità che esiste in una determinata malattia per quanto riguarda prevalenza, decorso ed esito. Queste differenze determinano la necessita di calcolare la numerosità del campione in modo selettivo per maschi e femmine, come pure diventa differente la valutazione del miglioramento terapeutico che abbia un significato clinico per maschi e femmine.
La responsabilità della promozione degli studi clinici è spesso assunta dai maschi, mentre sarebbe importante per lo meno la condivisione da parte delle femmine. Per questo è molto importante che si sviluppino corsi e attività che promuovano una leadership femminile per quanto riguarda formazione delle ricercatrici cliniche e competenze nel disegnare protocolli e nell’ottenere finanziamenti.
I problemi tranati devono poi trovare per la donna, anche a causa di situazioni ormonali diverse, condizioni che negli studi permettano di ottenere dati di efficacia e tossicità in rapporto con il menarca, la la menopausa e l’invecchiamento. In questo ambito non si può dimenticare che per maschi e femmine sono state riscontrate differenze di risposta ai farmaci, nei pochissimi casi in cui sono state studiate, nell’ambito delle minoranze etniche.
Differenze di efficacia e tossicità fra maschi e femmine
Quando gli studi sono capaci di distinguere gli effetti dei farmaci su maschi e femmine, in molti casi si sono osservate differenze molto importanti. Alcune ricerche permettono di stabilire che le statine, farmaci che diminuiscono le concentrazioni di colesterolo nel sangue, sono meno attive nella femmina rispetto al maschio nel ridurre maggiori eventi coronarici, particolarmente in condizioni di prevenzione primaria. Altre ricerche indicano che a parità di dosi la morfina è più antidolorifica nel maschio rispetto alla femmina. L’aspirina in prevenzione primaria non riduce l’infarto cardiaco nella femmina mentre è efficace nel maschio. L’opposto avviene invece per quanto riguarda l’ictus cerebrovascolare. Tuttavia ciò avviene solo per l’ictus ischemico e non per quello emorragico.
Va anche sottolineato che per le donne esiste anche una carenza diagnostica, perché vengono sottoposte meno dei maschi a test da sforzo e ad angiografia coronarica. Inoltre, i farmaci antipiastrinici vengono somministrati in misura minore alle donne rispetto ai maschi a parità di condizioni patologiche. Alcuni dati indicano che i farmaci possono esercitare differenze nelle donne a seconda dell’età. Ad esempio, la clearance del metilprednisolone è di circa il 50% più alta nelle femmine in premenopausa rispetto alla postmenopausa.
Se abbiamo poche informazioni sull’efficacia di genere dei farmaci ancora meno ne abbiamo per quanto riguarda la tossicità dei farmaci nelle femmine. In generale proprio perché le dosi dei farmaci per le donne derivano praticamente da quanto si conosce per i maschi, si ritiene che la tossicità sia maggiore nella femmina rispetto al maschio. Ad esempio, come effetti collaterali si hanno più aritmie,
più emorragie da terapie trombolitiche, più anomalie elettrolitiche da diuretici, più miopatie da statine, più tosse da ACE-inibitori nelle femmine rispetto ai maschi.
Ricerche americane indicano che a fronte di 1.3 milioni di effetti tossici nei maschi, ve ne sono 2 milioni per le femmine. Anche più significativa è la constatazione che su 10 farmaci ritirati dal commercio per effetti tossici, ben 8 sono stati ritirati sulla base di tossicità osservata nelle femmine. Infine occorre osservare che sono carenti anche indici che consentano di stabilire con chiarezza e in termini quantitativi quale sia la probabilità che i risultati degli studi clinici controllati siano efficaci o tossici nei singoli pazienti. Ad esempio, sarebbe molto importante poter disporre degli indici NNT (numero di pazienti che si debbono trattare per ottenere un risultato positivo in un paziente) e NNH (numero di pazienti trattati per avere un effetto tossico in un paziente). Questi indici, non necessariamente identici, calcolati per maschi e femmine e possibilmente anche in rapporto all’età, permetterebbero a medici e pazienti di avere un’idea più chiara di cosa si debbano attendere quando iniziano una terapia.
La situazione attuale della terapia nelle donne, che verrà dettagliata nei vari capitoli del libro, dovrebbe essere seguita con più attenzione da parte dei Comitati etici che evidentemente non dovrebbero approvare protocolli di ricerca che non permettono di ottenere risultati separati per maschi e femmine, perché non etici.
Il tema, insomma, è più che reale e riguarda la qualità del nostro prenderci cura della salute di tutti, ma non per tutti e tutte nello stesso modo.
1. C’è un errore evidente di “distrazione” laddove si afferma: “In generale, per sesso si intende l’insieme delle differenze anatomiche, biologiche, fisiologiche e soprattutto genetiche caratterizzate da un doppio cromosoma X nel maschio e da due cromosomi XY nella femmina.” essendo vero esattamente il contrario…
2. La definizione di “genere” è quanto mai superficiale e arbitraria. Vale la pena rileggere l’Enciclopedia Treccani https://www.treccani.it/enciclopedia/genere/ per evitare fraintendimenti e implicazioni fasulle anche in altri campi del sapere.
Grazie