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McKinley e Trump, i gemelli diversi della politica Usa: cosa lega davvero i due presidenti repubblicani?

Collage su foto Unsplash

È l’unico predecessore per il quale Donald Trump ha dimostrato ammirazione nel discorso per il secondo insediamento. In tale occasione, lo ha definito “un grande presidente” e ha proposto che tornasse a essergli dedicato il rilievo più alto dell’America settentrionale, il monte Denali in Alaska.

Stiamo parlando di William McKinley, il venticinquesimo presidente degli Stati Uniti, un repubblicano in carica dal 4 marzo 1897 al 14 settembre 1901, quando morì in seguito al diffondersi di un’infezione provocatagli dai proiettili che Leon Czolgosz, un anarchico di ascendenza polacca, aveva sparato contro di lui otto giorni prima.

La rivalutazione da parte di Trump

Gli storici hanno a lungo considerato McKinley una figura minore. Sul loro giudizio ha probabilmente pesato anche la valutazione negativa espressa dal suo successore alla Casa Bianca, l’esuberante e decisionista repubblicano Theodore Roosevelt, che considerava McKinley uno smidollato, succube dei dirigenti del proprio partito, a tal punto che non esitò a definirlo un presidente “con la spina dorsale della consistenza di un éclair”.

Invece, a oltre un secolo dal suo omicidio, McKinley si è ripreso il centro delle cronache politiche grazie alla citazione di Trump che, per non smentirsi, ha provveduto a emanare un ordine esecutivo, il decreto 14172, già il primo giorno del suo mandato, per ribattezzare il monte Denali in suo onore. A detta di Trump, perfino il risultato più importante raggiunto dall’amministrazione di Theodore Roosevelt, la costruzione del canale di Panama, l’infrastruttura che proprio The Donald vorrebbe riportare sotto il controllo degli Stati Uniti, sarebbe stato ottenuto con il denaro messo a disposizione da McKinley.

La riscoperta di McKinley da parte di Trump non deriva certo da empatia per un parziale parallelismo biografico: anche a voler ignorare l’uomo armato appostatosi a poca distanza da The Donald a West Palm Beach lo scorso 14 settembre, Trump è stato il bersaglio di un attentato, quello compiuto a Butler, in Pennsylvania, da Thomas Matthew Crooks, il precedente 13 luglio. Però, a differenza di McKinley, il tycoon è tranquillamente sopravvissuto, sia pure lievemente ferito all’orecchio destro. Piuttosto ad accomunare i due presidenti repubblicani sono alcune analogie politiche.

Dall’”età dorata” a quella “dell’oro”

L’”età dell’oro” che Trump ha promesso di instaurare in America durante il suo secondo mandato può superficialmente ricordare per assonanza l’”età dorata” di cui McKinley fu l’ultimo presidente.

In realtà, l’espressione utilizzata per definire il periodo della storia degli Stati Uniti compreso tra il 1877 e il 1901 riprende il titolo di un romanzo di Mark Twain e Charles Dudley WarrenThe Gilded Age, pubblicato qualche anno prima, nel 1873 – con cui gli autori intendevano denunciare la corruzione che si nascondeva sotto l’apparente splendore dell’epoca.

In ogni caso, i fondamenti sui quali Trump vorrebbe basare la sua amministrazione richiamano per certi versi i caposaldi della presidenza di McKinley: il protezionismo e la lotta all’inflazione in politica interna e l’imperialismo in campo internazionale. Fin da quando era stato un membro della Camera dei Rappresentanti, tra il 1885 e il 1891, McKinley aveva propugnato un considerevole innalzamento delle tariffe doganali per difendere l’industria manifatturiera statunitense, non tanto dalla produzione inglese quanto dal dumping tedesco.

La legge che fece approvare dalla maggioranza repubblicana del Congresso nel 1890 aumentò i dazi in media dal 38% al 49,5% del valore delle importazioni. Le percentuali furono ritoccate verso il basso nel 1894, dopo che i democratici ebbero riconquistato il controllo della Camera e del Senato. Tuttavia, il Dingley Act del 1897, voluto espressamente da McKinley dopo il suo ingresso alla Casa Bianca, varò tariffe mediamente del 52%, superando addirittura il livello che era stato stabilito nel 1890.

In prospettiva storica, l’incisività del suo protezionismo fa quasi impallidire i dazi del 25% imposti da Trump su tutte le importazioni di acciaio e alluminio per sostenere l’industria pesante statunitense. Inoltre, McKinley attuò una rigida politica deflazionista, ribadendo che il valore del dollaro sarebbe rimasto ancorato alla sola base aurea, anziché all’argento e all’oro come proponevano invece alcuni esponenti del partito democratico per cercare di venire incontro alle necessità di chi era indebitato e contava sull’inflazione per ridimensionare il proprio gravame finanziario.

McKinley fu anche un fautore della ripresa dell’espansionismo statunitense. Nel 1898 annetté l’arcipelago delle Hawaii, fino ad allora uno Stato sovrano. Nello stesso anno ricorse a un pretesto – l’esplosione della Maine, unanave da guerra statunitense all’ancora nel porto dell’Avana a Cuba, al tempo una colonia di Madrid, e la morte dei 266 marinai a bordo – per dichiarare guerra alla Spagna, accusandola falsamente di aver sabotato la corazzata.

A seguito della facile e rapida vittoria nel conflitto militare, conseguita in appena dieci settimane, gli Stati Uniti strapparono Portorico, Guam e le Filippine al decadente Impero spagnolo e instaurarono un protettorato di fatto su Cuba, che conseguì un’indipendenza meramente formale da Madrid. Insomma, in politica estera McKinley fu un antesignano di chi oggi vorrebbe impadronirsi della Groenlandia e del canale di Panama, acquistare la Striscia di Gaza e trasformare il Canada nel 51° stato dell’Unione.

Il rafforzamento dell’esecutivo

Al di là di singole politiche specifiche, l’aspetto dell’amministrazione di McKinley che può risultare più attraente per Trump fu la crescita dei poteri del presidente a scapito delle prerogative del Congresso.

Per esempio, nel 1900, quando si trattò di inviare truppe statunitensi in Asia perché si unissero al contingente multinazionale spedito in Cina per sedare la rivolta dei Boxers contro le ingerenze straniere nel Paese, McKinley non si preoccupò di chiedere l’autorizzazione al Congresso, come previsto invece tassativamente dalla Costituzione. Con la scusa che la Camera e il Senato non erano in sessione e che non ci sarebbe stato tempo sufficiente per convocarli prima che la situazione precipitasse, decise autonomamente di mandare i soldati americani, per evitare che qualche oppositore riuscisse a bloccare la spedizione e impedisse a Washington di partecipare a una operazione militare che avrebbe gettato le basi per la spartizione del mercato cinese tra le grandi potenze. Questa vicenda fu l’esempio paradigmatico di una significativa modifica nell’assetto delle istituzioni federali.

Alle origini della presidenza “imperiale”

Gli anni della presidenza di McKinley segnarono un’alterazione rilevante dei rapporti tra il potere legislativo e quello esecutivo a vantaggio di quest’ultimo. Il trentennio successivo all’assassinio di Abraham Lincoln nel 1865 era stato, invece, caratterizzato dal consolidamento della centralità del Congresso nella vita politica.

Questo sviluppo fu facilitato dalla constatazione che l’impeachment del successore di Lincoln, Andrew Johnson, nel 1868, pur senza portare alla sua destituzione, aveva reso i presidenti che avevano preceduto McKinley molto più concilianti nei confronti delle decisioni prese dalla Camera e dal Senato. Dopo il caso di Johnson gli inquilini della Casa Bianca temettero che, se non avessero assecondato il Congresso, la scure della messa in stato di accusa avrebbe potuto abbattersi anche sulle loro teste con esiti imprevedibili.

Di contro, McKinley trasformò la subordinazione del presidente al Congresso nella prevaricazione dell’esecutivo sul legislativo, edificando le fondamenta di una “presidenza imperiale”, come l’ha definita lo storico Arthur M. Schlesinger Jr., che si sarebbe rafforzata nel corso del Novecento per culminare con i due mandati di Richard M. Nixon (1969-1974).

Lo riconobbe uno dei senatori più influenti dell’epoca, il repubblicano George Frisbie Hoar del Massachusetts, in carica dal 1877 al 1904. Con una formula quanto mai edulcorata, Hoar ammise che, se prima del 1897 i suoi colleghi si erano recati alla Casa Bianca per dare suggerimenti, dopo l’elezione di McKinley vi andavano soprattutto per ricevere i consigli del presidente.

Non a caso, secondo una stima fornita da un altro storico, Ferdinando Fasce, il Congresso approvò il 60,9% dei disegni di legge appoggiati da McKinley, rispetto al 21,8% di quelli sostenuti dal suo predecessore democratico, Grover Cleveland, e a una percentuale oscillante tra il 40% e il 45% di quelli promossi dagli inquilini repubblicani della Casa Bianca negli anni Settanta e Ottanta dell’Ottocento.

Eppure Trump privilegia un altro strumento per esercitare il suo potere “imperiale”: gli ordini esecutivi, cioè i decreti presidenziali, che tagliano il Congresso completamente fuori dall’iter legislativo. Ne aveva emanati 220 nei quattro anni del primo mandato – rispetto, per esempio, ai 162 dell’amministrazione di Joe Biden – e ne ha promulgati già più di sessanta dallo scorso 20 gennaio in appena tre settimane dal suo rientro alla Casa Bianca.

Il Musk di McKinley

Anche McKinley ebbe il suo Elon Musk. Si chiamava Marcus Alonso Hanna ed era un ricchissimo uomo d’affari, i cui interessi e investimenti spaziavano dalle miniere di carbone e dalla siderurgia alle compagnie ferroviarie e all’estrazione del petrolio. Il motto di Hanna era “in politica contano soltanto due cose: la prima è il denaro; la seconda non me la ricordo”.

In ottemperanza a questo principio, nel 1896 finanziò la campagna elettorale di McKinley con ben sette milioni di dollari, pari a circa 263 milioni di dollari odierni, quindi perfino qualcosa in più del quarto di miliardo di dollari che, secondo le stime più attendibili, Musk avrebbe speso per sostenere Trump l’anno scorso.

Lo sfidante di McKinley, il democratico William Jennings Bryan, nel 1896 ebbe a sua disposizione soltanto 300.000 dollari (circa 11.270.000 dollari attuali), che utilizzò in prevalenza per tenere comizi, attraversando in lungo e in largo gli Stati Uniti. Hanna, invece, pagava viaggio, pasti e alloggio per portare davanti a casa di McKinley, a Canton, in Ohio, delegazioni di elettori in rappresentanza delle diverse aree geografiche del Paese, delle molteplici organizzazioni professionali, del mondo imprenditoriale e dei vari ceti sociali.

Affacciandosi sul porticato della sua villetta, McKinley arringava queste piccole folle, dipingendo Bryan come un pericoloso socialista che, se fosse entrato alla Casa Bianca, avrebbe messo in ginocchio gli Stati Uniti, provocando inflazione, disoccupazione e povertà. Era una piccola anticipazione delle accuse di essere una comunista e una marxista che, con altrettanta efficacia, Trump avrebbe rivolto a Kamala Harris 128 anni più tardi. Dopo l’elezione del suo candidato alla Casa Bianca, Hanna declinò l’offerta di McKinley di assegnargli il dicastero delle Poste nel governo. Preferì farsi eleggere al Senato federale al posto di John Sherman, che il presidente designò prontamente alla carica di segretario di Stato in modo che si dimettesse dal Congresso e lasciasse il seggio vacante a disposizione di Hanna.

Quest’ultimo, pur senza potersi avvalere di un Department of Government Efficency (il DOGE alla cui guida Trump ha collocato Musk), esercitò comunque una notevole influenza sulle nomine effettuate nell’amministrazione federale, sebbene l’ultima parola spettasse sempre a McKinley, come attestato da uno dei biografi del presidente, Wayne H. Morgan.

Ad esempio, Hanna pilotò la nomina del finanziere Lyman J. Gage, il presidente della First National Bank di Chicago, come segretario del Tesoro. Le pressioni esercitate da Hanna condussero anche a collocare Cornelius N. Bliss, comproprietario di una delle più grandi ditte commerciali della costa Est, alla testa del dipartimento dell’Interno.

L’appoggio dei lavoratori manuali

McKinley poteva annoverare tra i suoi sostenitori, sia pure senza un ruolo nel governo, anche John Pierpont Morgan, il principale banchiere dell’epoca, e il magnate del petrolio John D, Rockefeller.

La vicinanza dei più importanti uomini d’affari del tempo a McKinley non sorprende; così come non meraviglia che, dopo il voto dello scorso 5 novembre, gli imprenditori degli odierni settori trainanti dell’economia statunitense – da Jeff Bezos di Amazon a Marc Zuckerberg di Meta – siano saltati sul carro del vincitore.

Ciò che colpisce è, invece, la capacità che McKinley ebbe nel legare a sé il ceto operaio delle città manifatturiere del Nord-Est, sia nel 1896 sia in occasione della sua rielezione alla Casa Bianca nel 1900. La campagna del 1896 si svolse mentre gli Stati Uniti stavano ancora subendo le conseguenze della depressione economica iniziata nel 1893, quasi in coincidenza con l’insediamento del democratico Grover Cleveland alla presidenza.

A causa del perdurare della crisi, di fronte alle palesi difficolta di Cleveland nel far ripartire l’economia, McKinley ebbe buon gioco ad affermare che l’avvento alla Casa Bianca di un altro democratico quale era Bryan avrebbe peggiorato ulteriormente la situazione, provocando una nuova ondata di licenziamenti, mentre il protezionismo doganale proposto dal partito repubblicano avrebbe tutelato i livelli occupazionali degli operai e ripristinato la prosperità nel Paese.

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Influenzati dall’assicurazione di McKinley che tutti i lavoratori avrebbero goduto di un full dinner pail (letteralmente un portavivande pieno), cioè non avrebbero più dovuto saltare i pasti per far quadrare il bilancio familiare, gli Stati industriali riversarono i loro voti sul candidato repubblicano, portandolo alla presidenza nel 1896 e confermandocelo quattro anni dopo.

Anche in questo aspetto del comportamento elettorale si può cogliere un’altra analogia tra Trump e McKinley. The Donald, infatti, è stato rieletto nel 2024 grazie alla conquista della maggioranza tra i votanti che avevano un reddito familiare annuo inferiore a 50.000 dollari. Le critiche del tycoon alla globalizzazione, imputata soprattutto alle iniziative dei democratici Bill Clinton e Barack Obama per integrare i mercati internazionali, il suo impegno ad accrescere i dazi di importazione – non solo per difendere i posti di lavoro esistenti nell’industria, ma anche per aumentarli, costringendo le aziende che hanno delocalizzato gli impianti all’estero a riportare la produzione negli Stati Uniti – e l’aumento dell’inflazione – che ha toccato il 9,1% nel giugno del 2022 sotto l’amministrazione di un altro democratico, Joe Biden, decurtando o perfino azzerando i risparmi dei lavoratori manuali – hanno trasformato il multimilionario Trump nel campione di gran parte del ceto operaio, in una sorta di replica di quanto era accaduto a McKinley a cavallo dell’inizio del Novecento.

Prospettive per il futuro

C’è, infine, una potenziale analogia, ancora in divenire, che i trumpiani vorrebbero vedere realizzata forse molto più di The Donald. La vittoria di McKinley nel 1896 segnò l’instaurazione di un predominio del partito repubblicano nelle elezioni presidenziali che durò fino al 1932, quando il protrarsi della crisi economica – esplosa con il crollo della borsa di Wall Street nel 1929, sotto il repubblicano Herbert Hoover – spinse la maggioranza dei lavoratori a fare ritorno nel campo democratico e ad aprire le porte della Casa Bianca a Franklin D. Roosevelt.

Le uniche eccezioni al trend di egemonia repubblicana tra il 1896 e il 1928 si registrarono nel 1912 e nel 1916, in seguito al duplice successo del democratico Woodrow Wilson. La sua affermazione, tuttavia, maturò in circostanze eccezionali: nel 1912 la candidatura di Theodore Roosevelt alla presidenza nelle fila del neocostituito partito progressista, che divise il tradizionale bacino repubblicano di voti tra queste due forze politiche, e nel 1916 la promessa di Wilson – poi non mantenuta – di tenere gli Stati Uniti fuori dalla prima guerra mondiale.

I reazionari che hanno riportato The Donald alla presidenza nel 2024 sperano che il suo ritorno alla Casa Bianca non sia un fenomeno episodico, bensì l’inizio di una nuova epoca di supremazia repubblicana, in una sorta di replica di quanto accadde nel 1896. Il leader per assicurare l’ipotetica continuità di un trumpismo senza Trump c’è già ed è il vicepresidente J.D. Vance.

Resta da vedere quanto Vance sarà in grado di attuare tale auspicio, perfezionando con le sue ipotetiche presidenze la ridefinizione dell’immagine di Trump nei panni di un McKinley postmoderno.

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Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022), L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023). La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre (2024).

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