In un certo qual senso di lui si può dire che rappresenta l’unità dell’Italia gastronomica. Nativo di Porto San Giorgio, nel versante meridionale di quella riviera adriatica marchigiana dominata da due mostri sacri della ristorazione italiana come Mauro Uliassi, tre stelle Michelin e Moreno Cedroni, bistellato chef di Senigallia, si è consolidato le ossa, per cinque anni, al Fortino Napoleonico di Portonovo, a lungo regno di una delle grandi certezze della cucina di mare anconetana, Paolo Antinori, scuola di Gualtiero Marhesi, che ha permeato i suo primi passi inculcandogli i principi della disciplina e del sacrificio. Di lì il grande salto a Milano, al Four Season del grande maestro Sergio Mei, (“il mio grande maestro”), poi al prestioso ristorante dell’albergo La villa del Quar di Verona dove ha raccolto il testimone che era stato di Bruno Barbieri. Da Milano è sceso per la Torre del Saracino, altro tempio della gastronomia nazionale a Vico Equense, sulla costiera sorrentina, dove impera Gennarino Esposito che proprio quest’anno, oltre a vedersi riconfermare le due stelle Michelin, si e visto assegnare dalla Guida Rossa il premio speciale Chef Mentor per aver formato – questa la motivazione – generazioni di chef rappresentando “un faro per i giovani che vogliono approdare all’affascinante ma duro mondo della cucina”.
Grazie al grande Chef napoletano è ritornato in Lombardia, per una entusiasmante esperienza in uno dei ristoranti più prestigiosi ed esclusivi d’Italia, l’Orangeie del “Casta Diva Resort” a Blevio, sul Lago di Como. Gennaro Esposito che aveva un rapporto di consulenza con la proprietà aveva individuo in quel giovane chef talentuoso, che aveva avuto modo di vedere all’opera e appezzare nelle sue cucine a Vico Equense, e poi durante la Festa a Vico, la più grande manifestazione enogastronomica italiana, la persona che avrebbe potuto raccogliere un giorno la sua eredita in piena autonomia. E cosi e stato. Massimiliano Mandozzi, si è visto proiettato in una dimensione di alto livello come protagonista di un ristorante gourmet dove la ricerca della perfezione è un obbligo più che una aspirazione.
Dalla Lombardia lo troviamo a 43 anni oggi saldamente installato in Sicilia, al Gagini Social Restaurant di Palermo, dove Franco Virga e Stefania Milano i proprietari del cinquecentesco ristorante, per avviare un ambizioso progetto di internazionalizzazione della cucina siciliana, hanno pensato bene di rivolgersi allo chef marchigiano-napoletano-lombardo per una operazione temeraria ma certamente a lungo ragionata: creare a Palermo un punto di riferimento culinario di altissimo livello e prestigio. Che Virga ha spiegato in una intervista con queste parole: “Con questa rivoluzione vogliamo coronare un sogno e pensiamo che i tempi siano maturi per imboccare una nuova strada che però parla sempre attraverso il territorio. Abbiamo notato che ormai Palermo ha un respiro internazionale. E’ la sesta città d Italia, capitale ormai indiscussa del Mediterraneo. Il percorso Arabo Normanno Unesco, Manifesta e la nomina a Capitale della Cultura 2018, hanno portato Palermo ad affermarsi nello scenario globale e ad essere considerata meta centrale nel crocevia del turismo d’arte, naturalistico ed enogastronomico. Turisti da tutto il mondo hanno adesso una nuova percezione della nostra Palermo. Investitori stranieri hanno puntato sul decollo della città. Pensiamo che adesso anche la cucina debba dare nuovi stimoli e risposte in questo scenario. Non ci vogliamo far cogliere impreparati. Stiamo aprendo un nuovo capitolo”.
Un capitolo che guarda alla clientela internazionale. Se parliamo di internazionalizzazione allora Massimiliano Mandozzi può vantare diverse frecce al suo arco. Al di là degli autorevoli imprinting con i maestri della cucina italiana di cui si e detto, il nostro Chef fin da giovane ha sempre guardato con interesse all’estero curioso e voglioso di fare esperienze di diverse culture culinarie.
Già a 16 anni, terminata la sua formazione di base all’istituto alberghiero di Tolentino se ne era andato in Svizzera in un ristorante gastronomico il Sant’Abbondio che aveva due stelle Michelin e due brigate di lavoro.
Un bell’impatto per uno che cominciava a muovere suoi primi passi ai fornelli. La Svizzera è. stata però solo il primo passo, poi sono venute le esperienze all’Osteria Veneziana dello stellato Muller, in Germania e a Londra con Sebastiano Spriveri al Four Seasons Hotel Canary Wharf , nel cuore dell’area industriale di Tower Hamlets che rivaleggia con il distretto finanziario della City, i due anni e mezzo trascorsi a Dubai, al BiCE Mare, considerato, all’epoca, il miglior ristorante italiano e di pesce di tutti gli Emirati Arabi.
Insomma aveva visto lontano il ragazzo quando, forse spinto dalla sue passioni giovanili, letture di storia e racconti delle scoperte archeologiche, sognava di approfondire le sue conoscenze di nuovi mondi. Il destino non lo avrebbe portato a scavare nella terra testimonianze di antiche civiltà perdute, ma a scoprire come consolidare la sua formazione professionale ed alimentare di culture gastronomiche oltre i confini d’Italia. Un cammino che era iniziato a dodici anni quando la madre e la zia Alba, “che la domenica cucinavano in maniera tradizionale” lo facevano giocare in cucina con la pasta all’uovo. Massimiliano era affascinato dal fatto che dalla fontana di farina con le uova si sarebbero poi concretizzate delle saporite tagliatelle che da li a poco avrebbe gustato, con la soddisfazione di vederle poi mangiare a tutti in famiglia. E cosi che decise di iscriversi alla scuola alberghiera di Tolentino e per bruciare i tempi del suo apprendimento, contemporaneamente se ne andò a lavorare presso un ristorante a gestione familiare alle porte di Macerata, La Filanda.
Le sue scorribande all’estero da tempo gli avevano fatto maturare il convincimento che la cucina italiana ha espresso, grazie ai grandi progressi compiuti negli ultimi venti-trenta anni il massimo che le era possibile, soprattutto ora che dopo gli sperimentalismi e gli esotismi degli anni scorsi ci si sta indirizzando verso una religione della materia prima nella esaltazione dei suoi sapori e significati più nascosti. Il suo attuale impegno in Sicilia ha dunque il significato di una sfida per i prossimi anni, quella di una cucina che pur rifacendosi alla ricchezza della tradizione territoriale sappia trovare forme innovative che la pongano in condizione di parlare linguaggi gastronomici internazionali.
Progetto ambizioso che Mandozzi affronta con l’umiltà e la modestia che lo ha sempre caratterizzato.
Se gli li si chiede quale è stato il successo di maggiore gratificazione della sua carriera, si imita a rispondere con convinta modestia “penso di essere stato sempre molto fortunato, ma la fortuna e il successo più grande è quella che vivo ogni giorno, che è il lavorare con un gruppo di persone che mi seguono da molti anni e che è diventata la mia seconda famiglia”. Attenzione però, anche se si definisce una”persona schiva, taciturna e paziente che non ama i riflettori” al tempo stesso chi lavora con lui sa bene che Mandozzi è uno che “non scende a compromessi per un risultato” perché in quel caso tira fuori tutto il rigore teutonico assimilato in gioventù..
Ma in realtà quella che egli ritiene la sua più grande fortuna, e lui non si stanca mai di ripeterlo è stato di avere al fianco una compagna di vita e di lavoro che risponde al nome di Elnava De Rosa, Pastry Chef, allieva nientepopodimeno che di Heinz Beck. Siamo lontani in questo caso, tanto per citare lo scivolone in cui è incorso Amadeus presentando la fidanzata di Valentino come colei che “sa stare un passo indietro rispetto a un grande uomo”. Altro che passo indietro, fra Elnava e Massimiliano c’è rapporto di confronto costante, di arricchimento, di supporto professionale reciproco, fondamentale per una coppia che ha dovuto operare scelte di vita importanti.
D’altronde per capire chi sia la dolce e sorridente compagna di lavoro di Mandozzi basta dare un occhiata al suo curriculum, che, dopo il liceo clssico la vede iscritta alla scuola Cordon Bleu di Roma, un biglietto da visita che le consente di entrare e formarsi alla Pergola di Heinz Beck. La troviamo poi da Pierre Hermé a Parigi, da Pino Lavarra a Palazzo Sasso, da Stefano Baiocco a Villa Feltrinelli, al ristorante Comandante dell’hotel Romeo con Andrea Aprea, con Oliver Glowig, che ne rimane talmente colpito da volerla prima al Capri Palace e poi all’Aldrovandi Hotel, fino a che i suoi destini professionali si legano a quelli di Mandozzi a Villa del Quar per rimanervi indissolubilmente legata.
E oggi i due affrontano la sfida del Gagini Social Rstaurant con l’animo di due scalatori (non a caso lo Chef è un appassionato di montagna, col sogno nel cassetto di affrontare prima o poi l’Everest) che vogliono arrivare in vetta, con tenacia, metodo e sacrificio. Il segreto della cucina di Mandozzi? Deve essere “immediatamente percepibile, una cucina gourmet molto tradizionale e concreta, da cui nasce il pensiero di ricerca che la porta ad una semplice complessità che poi si esprime nel piatto. Una cucina basata su verdure dove trovo note amare e acide e dove la carne, il pesce o la pasta diventa un complemento che esalta e non che si esalta”.
Non nascono dalla estemporaneità piatti come il suo Tortello cacio e pepe con riccio di mare, un classico con cui è apparso in diverse riviste e trasmissioni TV, o il Riso di pasta all’amatriciana, con pesce persico, lampone e pecorino il primo piatto cucinato con pesce di acqua dolce al quale è particolarmente affezionato e con il quale , anni fa, vinse il contest Riso dell’anno di Risate e Risotti o ancora il Dorso di lepre in salmi con olive ai carboni, cetriolo e pesto di pistacchio e menta che svela il suo amore per la selvaggina.
Il nostro lavoro – ama dire – è fatto di rinunce, di interminabili giornate dove sai quando inizi e mai quando termini, è fatto di una continua e maniacale ricerca della perfezione che poi non troveremo mai.
Una teoria che sembra un calembour ma che in realtà nasconde, dietro la sua disarmante semplicità, una ricerca e uno studio complessi e molto articolati, come un archeologo – e qui torniamo alla sua infanzia – che si trovi a decifrare significati e valori antichi di una materia per renderli leggibili non solo agli studiosi ma anche a una platea di appassionati di gusto, di buon gusto..