Un imprenditore illuminato, profondamente innamorato della sua terra; un territorio straordinario, il Cilento, ricco di testimonianze archeologiche, che gli ha valso l’inserimento nei siti del Patrimonio universale dell’Umanità dell’Unesco, ma ricco anche di incantevoli paesaggi, dove la bellezza della natura si sposa con l’integrità dell’ambiente, con la storia, con la cultura, con una campagna che produce straordinari frutti dove pascolano le Bufale che hanno reso la mozzarella italiana famosa nel mondo. E uno Chef che di questa terra è parimenti innamorato al punto che nella sua cucina si è sempre proposto di esaltarne i significati e i sapori più reconditi che si rifanno alla tradizione gastronomica di questo bellissimo angolo d’Italia. Questi tre ingredienti, uniti in una congiunzione astrale difficilmente riproponibile, si concretizzano nei “Tre Olivi” il raffinato ristorante del “Savoy Beach Hotel”. Siamo a Capaccio, un nome che dice poco ai più, a un chilometro in linea d’aria da Paestum che invece dice molto in Italia e all’estero.
Ma andiamo per ordine. L’imprenditore che risponde al nome di Giuseppe Pagano e di quelli che se ne contano sulla punta delle dita e che ha dedicato tutte le sue energie – e sono veramente tante, irrefrenabili, incontenibili – a esaltare le bellezze di questa terra. Ha iniziato da piccolo albergatore rilevando una pensione gestita da un tedesco sulla spiaggia di Capaccio e frequentata da tedeschi (come al solito molto più lungimiranti, in fatto di cultura e ambiente, rispetto agli italiani) quando questo lembo di terra non era ancora stato scoperto dal turismo di massa. Da li è partito per costruire pietra su pietra un albergo che fosse all’altezza della tradizione millenaria di questa area e ne è nato il Savoy Beach Hotel, un quattro stelle lusso, circondato da un palmeto e da piscine scenografiche che, all’arrivo, ti domandi se sei capitato in provincia di Salerno o in California in uno di quei grandi alberghi dove vanno a svernare i miliardari americani. “Con quello che offre il Cilento – dice orgoglioso – non siamo secondi a nessuno e dobbiamo tenere alta la nostra offerta turistica”.
Ma un albergo sembrava poco a Pagano: in quell’area gli antichi, greci prima e romani dopo, facevano vini preziosi. E allora via, si è buttato a produrre vini, ovviamente privilegiando ed esaltando vitigni autoctoni e adottando la viticoltura biodinamica rispettosa dell’ambiente, vini che ha saputo portare in solo cinque anni, facendosi guidare dal numero uno degli enologi italiani, Riccardo Cotarella, sui tavoli dei più importanti ristoranti stellati d’Italia e che, manco a dirlo, vincono premi in Italia e all’estero. Ma questa è anche terra d’olio, qui si è tenuta la terza edizione del Best International Olive Oil Contest (Best-IOOC), tra i cinque più importanti concorsi internazionali dedicati all’olio extravergine d’oliva, secondo quanto certificato dal World Ranking Extra Virgin Olive Oil (WREVOO). E che ti fa Pagano? Acquista terreni e avvia la produzione di olio extravergine di oliva biologico che per le sue proprietà e la sua importanza viene venduto in preziose bottiglie di vetro molto spesso, come quelle dei più costosi profumi “perché l’olio di qui – dice – racchiude il profumo della terra”.
Ma Capaccio è anche a due passi da Battipaglia, patria della mozzarella di bufala, campione celebrato ed apprezzato del Made in Italy in tutto il mondo, ed eccolo il nostro imprenditore avviare anche un allevamento modello di bufale, che più di una stalla assomiglia a un salotto, dal quale ricava un latte “sereno e non stressato, non mi interessa la quantità ma la qualità” col quale produce mozzarelle e ricotte da leccarsi i baffi.
Assicurati così gli elementi base della ristorazione locale, l’olio, il vino, la carne e il formaggio e le verdure dei propri orti, occorreva trovare la persona adatta al quale affidare la regia del raffinato ristorante, tutto legno di ulivi centenari e cristalli, (da lì il nome ), in grado di condividere e interpretare il sentimento, la passione, il gusto delle tradizioni culinarie di questa terra.
Ed ecco materializzarsi Matteo Sangiovanni, un ragazzone all’epoca trentenne schivo di modi, concreto nei fatti, uno Chef che ha scoperto per caso la passione per la cucina ma che poi da questa si è fatto travolgere, come capita quando si conosce il grande amore e lo si tiene stretto una vita. Pagano decide di scommettere su di lui. E ancora una volta la sua scelta è vincente. Ma come nasce lo Chef Sangiovanni?
“Non sono nato come cuoco in famiglia – confessa – i miei erano contadini ed io sono andato alla scuola alberghiera solo perché era più facile rispetto alla scuola normale. Ma è successo che un giorno, grazie al mio professore Giacomo di Motta – che non finirò mai di ringraziare – mi si è accesa una lampadina. Lui ha saputo prendermi per il verso giusto e farmi capire quanto potesse essere fantastico il mondo dei fornelli. E’ successo all’improvviso e da quel momento decisi che quella sarebbe stata la mia unica ragione di vita, che non mi interessava assolutamente fare altro”.
E poiché il giovane Matteo, anche se non lo confessa, è un inguaribile caparbio, da quel momento cominciò a costruire la sua vita da Chef, partendo dalla pasticceria che, per la ferrea disciplina che richiede, lo attirava molto ed era il linea con il suo carattere “inquadrato” per arrivare poi alla ristorazione.
Sangiovanni è desideroso di bruciare le tappe. Non finisce neanche il triennio della scuola alberghiera, vuole mettersi alla prova, e segue il suo maestro Giacomo di Motta nel ristorante di un albergo a Palinuro. Esperienza formativa importante ma gli era chiaro che poteva essere solo il primo gradino della sua scalata verso una cucina di alta professionalità. “Non so perché, ma senza che nessuno me lo consigliasse, una voce di dentro mi disse che dovevo andare oltre”. Andare oltre, anche oltre confine, per farsi le ossa. La voce di dentro gli suggerisce ancora una volta che deve impadronirsi del “sistema cucina”. E fatte le valigie parte per Lucerna in Svizzera dove approda al ristorante “Mostrosa” retto da un Italiano, Ernesto, ma di proprietà tedesca e tedesco anche di impostazione di lavoro. Lo stesso Chef, anche se era italiano, era da 30 anni espatriato in Svizzera quindi aveva acquisto una mentalità rigorosa sull’impostazione del lavoro. Per uno di mentalità matematica come lui l’anno trascorso in Svizzera è stato fortemente formativo.
Fatto questo passo ora c’è da crescere in qualità ed eccellenza. Leggendo e studiando viene a sapere che a Venezia c’era una scuola di cucina molto importante. Sul litorale di Sottomarina di Chioggia presso l’Hotel Airone, Rossano Boscolo, della grande dinastia di albergatori veneti, aveva messo su nel 1982 il Centro Perfezionamento Cucina e Pasticceria l’Etoile, la madre di tutte le scuole italiane di alta cucina e pasticceria. Una realtà rivoluzionaria per quei tempi che aveva introdotto i dettami dell’alta cucina francese in Italia – che solo allora cominciava a manifestare i primi exploit gastronomici di eccellenza grazie a personalità come Gualtiero Marchesi, Valentino Marcattilii, Gianluigi Morini, Gaetano Trovato – attraverso la quale, tanto per capirsi, sono passati da allora a oggi oltre 30.000 fra Chef e Pasticceri, la crema dell’alta ristorazione italiana odierna, fra i quali molti stellati.
“Io capii subito che quella era la strada che dovevo intraprendere per crescere. All’epoca non c’erano tanti ristoranti stellati in Italia, il grande boom c’è stato dopo il 2000. Oggi chi vuole imparare seriamente cerca di farsi accettare da un ristorante stellato, ma all’epoca chi voleva crescere doveva fare esperienza nei ristoranti degli alberghi di lusso”.
Matteo brucia sui carboni ardenti per andare a l’Etoile. Cerca di mettersi rispettosamente in contatto con Boscolo più volte ma non glielo passano mai. “Allora un giorno mi feci coraggio e chiesi di parlare con Renato, come fosse un mio amico dando familiarmente solo il mio nome di battesimo. L’espediente funzionò, e Boscolo venne al telefono”.
Sangiovanni si presenta al telefono con molta determinazione: ”sono un ragazzo di Salerno e so che se vengo da lei posso fare molte belle esperienze. Io vorrei venire nella vostra scuola a lavorare anche senza soldi, non ci sono problemi se non mi pagate, a me interessa imparare”.
Boscolo dopo un attimo di esitazione, il tempo di apprezzare l’audacia e la sfacciataggine del giovane del Sud, gli risponde con altrettante determinazione: “c’è un ragazzo che oggi si è infortunato, se sai lavorare come dici presentati subito, altrimenti è inutile che tu venga”.
E Sangiovanni rimase nelle società Boscolo per quattro anni. “Quattro anni straordinari, passavo dalla cucina alla pasticceria, imparavo dai grandi maestri italiani e dai grandi chef francesi che Rossano chiamava a fare lezioni a Chioggia. Era tutto molto entusiasmante perché si scoprivano ogni giorno cose nuove, nuovi metodi di cottura, nuovi accostamenti e come trattare le materie prime. Non lavorai solo all’Airone, Boscolo mi fece lavorare anche al loro Hotel de la Ville di Vicenza, al Boscolo di Roma, feci anche l’apertura dell’Albergo Leon d’Oro e Verona.
Terminata l’esperienza dai Boscolo, Matteo ora vuole approfondire il rapporto fra modernità e tradizione in cucina, il suo pallino di sempre, la sua voglia di fedeltà a quello che offre la sua terra di origine. E corre a Milano da Sergio Mei, prima Executive Chef della Compagnia dei Ciga Hotels di proprietà dell’Aga Khan e poi del ristorante Four Seasons a Milano. Premiato come “Discepolo d’Escoffier” a Cannes, “Cuoco d’Oro d’Italia” e come Chef Italiano dell’Anno dall’Accademia della Cucina Italiana. Una frase ricorrente di Mei è: “Reinvento e reinterpreto ricette tradizionali.La perfezione non esiste;ma esistono le ricette straordinarie“. Oro per le orecchie di Sangiovanni che si lega a Mei da una profonda amicizia: “Per me è stato un gran maestro l’ho sempre apprezzato sia come uomo sia come professionista. Mai un tono sopra le righe, uno che non se la tira, che tratta un subalterno al pari di un grande chef stellato. Uno che sa trasmetterti tutta la sua esperienza e la sua cultura”, E anche al Four Seasons Matteo rimane un anno. Oramai è uno chef completo che cerca l’eccellenza. E decide di tentare un altro colpo audace, farsi accettare dai fratelli Cerea in uno dei ristoranti più celebrati della cucina italiana, il mitico tristellato “Da Vittorio” Relais & Chateaux a Brusaporto” in quel di Bergamo. E ci riesce.
“Altra esperienza straordinaria. Devo dire che se c’è un posto in Italia in cui si impara tutto, dalla cucina, alla gestione, dall’accoglienza alla componente imprenditoriale, beh, questo è sicuramente “Da Vittorio” dei Cerea. Un ristorante che fattura, che lavora sempre, tutto l’anno, non come molti stellati dove se ci andate durante la settimana vi può capitare di trovare solo uno o due tavoli occupati. Se si va Da Vittorio c’è sempre gente, gente che si muove da lontano apposta. E se accade questo, qualche ragione c’è. E siccome io sono uno molto pratico nelle cose, vado al concreto, sono aziendalista, posso dire che dai Cerea ho potuto coltivare e approfondire le mie convinzioni, ovvero che la cucina si costruisce non si inventa. E’ una realtà che va assolutamente vissuta se si vuole crescere”.
Fra un passaggio al Villa Gritti di Verona, al Capo d’Orso sulla costiera amalfitana finalmente Sangiovanni approda al Savoy Beach Hotel. L’incontro mcon Pagano è stato un’intesa a prima vista, ragionano all’unisono e in grande, soprattutto sono mossi dal desiderio di far capire a tutti che il Cilento è un’esperienza culturale, sensoriale, sentimentale unica che va scoperta poco per volta e assaporata in tutte le sue sfaccettature. E il “Tre Olivi” diventa il suo regno, il laboratorio dove metabolizzare tutto quello che ha appreso dai suoi grandi maestri, dedicandosi anima e corpo al patrimonio gastronomico della sua terra. Il “Tre Olivi” diventa anche un’arena di confronto con grandi Chef stellati, qui organizza cene a quattro mani con Ernesto Iaccarino di Don Alfonso, con Ilario Vinciguerra di Gallarate, con Paolo Barrale del Marennà, con Josean Alija, lo chef spagnolo il cui ristorante all’interno del museo Guggenheim, negli anni è diventato uno dei templi della cucina creativa spagnola.
La sua cucina diventa una lente di ingrandimento per scoprire il territorio minutamente e ogni componente che usa viene studiata in profondità per metterla in luci diverse e farne capire le grandi qualità e le grandi potenzialità. E così ecco comparire in carta: “Spaghetti di Gragnano aglio, olio e peperoncino con vongole e spuma di baccalà”, “Riso Carnaroli con gamberi bianchi mantecato con riduzione di Gioì (bollicina dell’azienda di Pagano), grattugiata di ostriche e sfusato amalfitano; “Agnello dei monti Picentini con ortaggi di stagione a Km0”; “Variazione del Gambero del Mediterraneo”, proposto crudo sotto forma di carpaccio, al vapore naturale con crema di fagioli, cotto e a forma di roulette farcito di patate ed asparagi, cotto e a forma di raviolo di pura polpa di gamberi ripieno con ricotta; “Assoluto di carciofi” un piatto che utilizza tutte le parti del carciofo cucinato con varie tecniche, “Mozzarella di bufala” con quattro tipi di lavorazioni.
Come si capisce bene dal suo menù la ricerca dello Chef è tutta incentrata sulla scoperta – meglio dire – la riscoperta dei sapori che abbiamo a portata di mano ma che non siamo più abituati a leggere in profondità. Il suo talento consiste proprio nella conoscenza e nel rispetto delle materie prime, nella sua capacità tecnica, e nella sua creatività. I piatti che escono dalla sua cucina sono un’armonia di equilibrio e leggerezza, e conquistano il palato con la loro avvincente semplicità, una semplicità solo apparente, perché dietro ogni portata c’è uno studio meticoloso e approfondito, quasi scientifico, di esaltazione della sostanza e dei suoi sapori.
“A mio parere il grande successo mediatico che ha arriso alla gastronomia italiana in questi ultimi anni ha spinto molti collegi Chef a cercare effetti particolari, a esasperare il piatto con tante tecniche a strafare con miscellanee di sapori per cercare di far vedere quello che sappiamo fare. Si è un po’ esagerato. Credo che tutti si debba fare un bagno di umiltà e fare un passo indietro, concentrandoci sul prodotto. L’Italia ha un patrimonio agroalimentare che il mondo ci invidia, il nostro compito è di esaltarlo al massimo non di camuffarlo. E credetemi lavorare sulla intrinsicità di un prodotto non è cosa facile. Da tempo mi piacerebbe mettere in menù un piatto semplice della nostra tradizione, Pasta e fagioli con le cozze. Lo sto studiando da molto tempo ma ancora non sono riuscito a trovare una soluzione soddisfacente per i miei principi. L’identità di una cozza, della pasta di Gragnano, di un fagiolo di Controne, sono cose troppo importanti perché ci si possa giocare sopra”.