Il tema è lo stesso: i mille giorni del programma di governo, gli 80 euro, l’articolo 18. Il set, molto simile: poltrone squadrate per gli invitati, cartone per Ballarò, finta pietra tipo Gli Antenati per di martedì. Comprimari tanti, nel solito mix establishment/sindacato, destra/sinistra, femmine/maschi. Sempre strepitoso Crozza, sempre affilato Benigni.
Ma il vero protagonista del derby tra Giovanni Floris e Massimo Giannini era uno solo: Matteo Renzi. Che è stato messo sul tavolo settorio da Eugenio Scalfari su La7, e da Romano Prodi sulla Rai. Due uomini della sinistra, due influenti trend-setter del pensiero collettivo. Scelti forse perché sono due che Renzi non può rottamare, il primo in quanto fuori della sua portata, il secondo perché a farlo fuori ci hanno già pensato gli altri del Pd, e poi potrebbe sempre tornargli utile, chissà, in una impasse sul Quirinale.
Entrambi hanno fatto capire che il presepe apparecchiato da Renzi non gli piace. E sul triplice fronte della credibilità, della limpidezza politica, e della scelta degli obiettivi, gli aspetti a cui un leader che si qualifica come nuovo deve tenere più a mente, lo hanno fatto a pezzi.
Sul piano della credibilità dell’azione politica di Renzi, Prodi ha affondato la lama senza esitare: «le riforme si fanno con fatica e dialogando… il messaggio che si dà all’estero deve essere realizzato alla lettera, in modo inflessibile… le riforme devono avere un passo tranquillo», ha ammaestrato il professore, ricordando che lui ha “un punto di vista padano”: come dice Ivano Fossati, un passo di pianura contro quello da bersagliere di Renzi, che rischia di travolgere tutto e rimanere alla fine senza fiato.
Sul piano dell’onestà del messaggio è stato Scalfari a dare il colpo di maglio. Renzi erede di Berlusconi?, chiede Floris. «In qualche modo lo è», risponde il fondatore di Repubblica, «entrambi sono dei seduttori». Cioè dei venditori di suggestioni, dei basilischi politici, dei venditori di elisir da baraccone. D’altra parte è stato Berlusconi a dire «Se non fossimo contrapposti sarebbe il mio figlio giovane», insiste a citare il fondatore. Stessa pasta, stesso stile. Anche stesso cantore e tifoso, Giuliano Ferrara, «innamorato di entrambi». E persino stessi pericoli, se Scalfari ricorda il titolo dell’editoriale con cui salutò la discesa in campo di Silvio: “Makie Messer ha il coltello, ma vedere non lo fa”.
E sul piano degli obiettivi? Qui è di nuovo Prodi a dare un lezione, e sul terreno più caldo, quello del lavoro. L’articolo 18 è davvero il freno alla crescita del paese?, chiede Giannini. «Il nostro costo del lavoro – tenuto conto degli oneri sociali – è più basso di quello dei tedeschi e un po’ anche di quello dei francesi», risponde il Prof., e sull’entrata e l’uscita, il vero problema dell’articolo 18, «è vero che l’eccesso di ricorso alla magistratura ha dato problemi, ma di fatto sono state molto facilitate negli ultimi tempi». Semmai, il vero problema è la flessibilità interna, quella che consente alle fabbriche di gestire la mancanza di magazzino, le nuove commesse, ma per questo serve «un dialogo diretto e forte tra sindacato e impresa, con buona volontà», non soluzioni giuridiche. Un assist a favore del sindacato.
Chissà se il ragazzo di Firenze ha preso nota.