A Matteo Messina Denaro piaceva investire nelle energie rinnovabili. I vecchi capimafia non capivano questo interesse e se ne mostravano distanti. Il settore che più è cresciuto negli ultimi anni in Sicilia è stato l’eolico. Decine di impianti che oggi producono 3,3 Gigawatt all’anno e vedono la Regione al terzo posto in Italia. Gli interessi che dagli anni ‘90 ruotano intorno alle installazioni delle pale non sono sfuggiti al boss di Castelvetrano. Ha intuito che quelle installazioni erano importanti per lo sviluppo del Paese. Né la latitanza gli ha impedito di studiare il settore ed entrarci in modo determinante, dicono gli inquirenti.
Espressione di una mafia affaristica Messina Denaro si è servito di prestanomi e coperture istituzionali per aggiungere l’energia dal vento alle altre attività controllate sulle quali è riuscito a costruire un impero economico miliardario. L’ Anev – l’associazione che riunisce le imprese del settore – ha sempre respinto le infiltrazioni della malavita. Solo le indagini sul patrimonio del boss ci diranno se e in che misura i parchi eolici siciliani – cresciuti anche grazie a finanziamenti pubblici – facessero capo a lui.
L’eolico non piaceva a Totò Riina
Due circostanze, tuttavia, confermano l’interesse del boss per il business del vento. La prima è una intercettazione ambientale nel carcere di Opera a Milano del 2017. Nell’ora d’aria, Totò Riina parla con un suo compagno e si sfoga facendo, appunto, il nome di Matteo Messina Denaro “A me dispiace dirlo, questo signor Messina, che fa il latitante, che fa questi pali eolici, i pali della luce, se la potrebbe mettere nel c…. la luce, ci farebbe più figura. Se ci fosse suo padre buonanima, u zu Ciccio capo mandamento di Castelvetrano…questo figlio lo ha dato a me per farne quello che dovevo fare, è stato qualche 4 o 5 anni con me, impara bene,….stavolta si è messo a fare luce in tutti i posti “.
La seconda circostanza che rafforza le ipotesi investigative, sono il processo e la condanna in primo grado dell’imprenditore trapanese Vito Nicastri, noto proprio con il nome di “re dell’eolico”. Nel 2019 viene arrestato e condannato a 9 anni per mafia, ma poi assolto in secondo grado e condannato a 4 anni soltanto per intestazione fittizia di beni. Gli inquirenti pensavano che Nicastri fosse vicino a Matteo Messina Denaro.
Ma un altro imprenditore siciliano, Totò Moncada, recentemente scomparso, ha combattuto una battaglia per la legalità nel settore delle rinnovabili sull’isola. Costretto a vivere sotto scorta aveva dichiarato che Nicastri lo voleva aiutare con i funzionari della Regione per sbloccare le sue pratiche su eolico e impianti di biometano. L’offerta evidentemente non fu accettata, ma il segnale era chiaro.
Le Società scatole cinesi anche fuori dalla Sicilia
L’eolico per la cosca trapanese andava gestito con criteri industriali, senza confini perché era un mercato in crescita e assicurava buoni guadagni. Paradossalmente si facevano affari oscuri con soldi pubblici a vantaggio dell’ambiente.
Tra il 2009 e il 2015 racconta oggi l’ex Prefetto di Verona Perla Stancari, a carico di quattro Società con sede legale a Verona ma operative a Trapani, fu emessa un’ interdittiva antimafia che bloccò investimenti pubblici per 90 milioni di euro.
Il giro d’affari faceva capo a decine di società, scatole cinesi in mano al già noto Vito Nicastri. Dopo l’interdittiva le società chiesero un risarcimento danni, ma la magistratura confermò tutto e furono sequestrati beni per 1 miliardo e trecento milioni di euro. Matteo Messina Denaro non poteva immaginare che l’interesse per l’energia portasse gli investigatori ad indagare su un settore così distante dai tradizionali affari della mafia. Un errore ? Forse si, perché lo Stato quando serve, sa cercare anche dietro i fenomeni della modernità.