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Marco Biagi,19 marzo 2002, un delitto che non si può dimenticare e un’eredità culturale che non può andare smarrita

Il 19 marzo 2002, Marco Biagi fu assassinato sotto casa a Bologna, dopo che i servizi segreti avevano avvertito di minacce da parte delle nuove Brigate Rosse. Nonostante le critiche postume e il tentativo di separarlo dal suo lavoro, il suo lascito culturale sulla flessibilità normativa e sull’inclusione sociale continua a vivere attraverso il ricordo e le iniziative a lui dedicate

Marco Biagi,19 marzo 2002, un delitto che non si può dimenticare e un’eredità culturale che non può andare smarrita

Il 19 marzo di ventitré anni orsono Marco Biagi stava rientrando da Modena, dove insegnava nella Facoltà di economia, quando venne assassinato sotto casa, in via Valdonica, a due passi dalle Due Torri. La moglie e i figli sentirono il rumore degli spari e capirono ciò che era accaduto. Il 19 marzo di quell’anno cadeva di mercoledì. Il venerdì precedente, un autorevole settimanale pubblicò una notizia attribuita ai servizi in cui si affermava che le nuove BR (che anni prima avevano ammazzato Massimo D’Antona) preparavano altre azioni nei confronti non già di personalità della politica, ma di esperti collaboratori a cui erano affidati compiti di elaborazione. Era il profilo di Marco Biagi; ma i terroristi anticiparono la riunione della commissione incaricata di reintrodurre o meno quella tutela di pubblica sicurezza che gli era stata inopinatamente tolta, lasciando il professore inerme nei confronti dei suoi assassini.

La burocrazia che ha tradito Marco Biagi

Quell’ostinazione burocratica risultò tanto più deprecabile quando, nelle indagini, emerse che il commando brigatista non avrebbe agito se ci fosse stato il rischio di un conflitto a fuoco. Quando fu ucciso, Biagi ed io ci conoscevamo da trent’anni. Col tempo si era consolidata la nostra amicizia; ci frequentavamo con le famiglie, mentre sul piano professionale, per le funzioni e le competenze di ciascuno di noi svolte in quegli anni, i rapporti erano intensi, integrati e complementari. Dopo quel tragico evento ho trovato una missione nella vita: quella di consentire che le idee di Marco Biagi avessero nel dibattito una legittimità che gli era stata negata dai “terrapiattisti” del diritto del lavoro, legati a un concetto ossificato, ma considerato immutabile, del rapporto di lavoro a tempo indeterminato e presidiato dall’articolo 18 dello Statuto. Biagi si azzardò a valicare quel confine al di là del quale stava scritto “hic sunt leones”.

Il silenzio e la distorsione dopo la sua morte

Nel breve tempo che gli rimase da vivere, Biagi veniva trattato come anni dopo capitò ad Elsa Fornero in materia di pensioni: il Libro bianco era “limaccioso” e basta. Alla stregua di come la riforma pensionistica del 2011 era accusata di penalizzare i lavoratori del diritto alla quiescenza. Certo, il sacrificio di Biagi ha imposto il silenzio a tanti critici. Anzi, iniziò il tentativo di separare Marco dal suo lavoro, come se fosse stato strumentalizzato dal perfido governo di centrodestra. Questa tesi si basava su un dato di fatto: la legge Biagi era stata approvata dopo la sua uccisione e, soprattutto, i decreti legislativi in applicazione della delega furono varati in tempi successivi con il contributo di Michele Tiraboschi. Ma nel retro pensiero di troppi dirigenti politici e sindacali e di operatori del diritto, Biagi rimane l’inventore della precarietà, come se la Luna esistesse solo perché qualcuno la indica col dito.

Marco era convinto che la flessibilità dei rapporti di lavoro fosse un’esigenza ineludibile e che il compito del giurista fosse quello di definire delle regole a tutela del lavoratore. “Occorre prevedere – era scritto nel Libro Bianco – nuove tipologie contrattuali che abbiano la funzione di “ripulire” il mercato del lavoro dall’improprio utilizzo di alcuni strumenti oggi esistenti, in funzione elusiva o frodatoria della legislazione posta a tutela del lavoro subordinato, e che, nel contempo, tengano conto delle mutate esigenze produttive ed organizzative”. Portare una regola pertinente dove non c’era, per Biagi, era non solo il “mestiere” del giurista, ma anche l’unico modo per tutelare il lavoratore.

Il pensiero di Marco Biagi e la lotta al lavoro irregolare

In un articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore del 16 novembre 2001, Marco scriveva: “Se si vuole davvero iniziare una lotta senza quartiere al lavoro irregolare, bisogna disporre di tutti gli strumenti idonei allo scopo: per stanare gli irriducibili del lavoro nero occorrono tutte le armi, anche le più sofisticate… Si riducono le tutele? – si domandava – Forse per gli occupati, ma non per chi cerca lavoro”. Marco seguì questa linea di pensiero fin dal suo contributo, nel febbraio del 2000, alla stesura del c.d. Patto per Milano, che altro non era se non un tentativo di includere, adibendoli a lavoretti di pubblica utilità, gli “ultimi”, i “dannati della terra”, gli immigrati senza occupazione: un modello che negli anni successivi venne imitato in tante altre città. Avendo quell’intesa degli obiettivi essenzialmente inclusivi per i settori emarginati del mercato del lavoro, presupponeva livelli retributivi d’accesso inferiori ai minimi contrattuali: il che offendeva i “sacri principi”. Fu quella la circostanza in cui maturò la rottura con la Cgil (che non volle aderire all’intesa).

L’impegno e le minacce che ha affrontato fino alla morte

Nei confronti del lavoro del professore, le manifestazioni di un normale dissenso di merito, peraltro legittimo ed utile, erano contornate da un clima contestuale di sgradevoli riprovazioni etiche che sfociavano in una sostanziale accusa di tradimento. Un’accusa che si può sopportare solo se si possiede una grande forza morale, perché la sinistra è implacabile con chi si sottrae alla regola fondamentale dell’appartenenza. Nei confronti dell’avversario, infatti, la sinistra mantiene un distinguo morale, in conseguenza del quale chi abbandona il campo non è uno che ha semplicemente cambiato opinione, ma è un apostata della vera fede, mentre chi approda a sinistra è un redento.

Negli ultimi mesi di vita, il professore si impegnò nel difendere in tante occasioni di dibattito aspro e fazioso quelle idee e proposte che erano raccolte nei testi elaborati. Lo faceva in un contesto di insicurezza personale che lo inquietava, ma non lo distoglieva dal suo impegno. In una delle tante lettere alle autorità chiamate (inutilmente) a provvedere alla sua sicurezza, Biagi assicurava al ministro del Lavoro, Roberto Maroni, che, nonostante le ricorrenti minacce, non intendeva “desistere dalla mia attività di collaborazione con Lei e con il Ministero”.

Il lascito di Marco Biagi

Il compito del giurista, secondo Biagi, era quello di individuare forme regolate e regolari per l’inclusione sociale, nella consapevolezza che la pretesa di trasformare chiunque in un lavoratore stabile si trasforma al di là delle intenzioni in una preclusione, perché per divenire occupati occorre essere prima di tutto occupabili. La flessibilità “normata” costituiva il nucleo centrale del suo pensiero.

Da ben ventitré anni, la ricorrenza dell’uccisione viene ricordata con tante iniziative da parte della Scuola da lui fondata, dalla fondazione a lui intestata, dalle istituzioni di Bologna, da amici e associazioni locali.

Spesso mi chiedo che cosa avrebbe fatto il mio amico in questi 23 anni. Ora sarebbe in pensione a godersi le due nipotine, figlie di Francesco, il maggiore dei suoi ragazzi. Poi sarebbe molto orgoglioso dei successi del suo Bologna, la squadra del cuore. Spero che là dove si trova gli sia possibile assistere a quanto accade ai suoi cari e al lavoro dei suoi allievi. E che non si intristisca troppo per i quattro referendum della Cgil.

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