Ancora un dribbling, un altro ancora. Non l’ultimo, però, perchè per Maradona non è mai l’ultima partita, ma “solo e siempre la penultima”, perchè certi bambini infiniti (come li definiva Emanuela Audisio in un bel libro, sulla cui copertina campeggiava un Maradona giovanissimo, col ventre ancora piatto, in testa il cesto di capelli ricci e un pallone, poco più giù il sorriso), non smettono mai di giocare, di correre e sporcarsi.
Per quelli come lui il tempo che passa è solo una triste ironia, una battuta che non fa ridere perchè non la capisci fino in fondo. Si guarda sempre avanti e mai indietro, a un futuro senza fine. Un fuoco che brucia troppo non ha il tempo per fermarsi a fare i conti, e certi passati sono solo crudeli inconvenienti che a volte si ripresentano.
Oggi Maradona è l’avanzo bolso e imbronciato di un eroe, e i riccioli sciolti hanno lasciato il passo a un’acconciatura più rigida, resa statica dal gel. Di sorriso, più giù, non c’è traccia. Il campo da gioco è un’intervista di SkyTg24, a Dubai, nella villa regalatagli da un emiro. Da laggiù Diego parla dell’Italia e di Napoli e del fisco, un altro dribbling, una delle tante partite che non ha ancora smesso di giocare.
Perchè il fatto è questo: Maradona deve allo Stato italiano 40 milioni di euro. È una storia vecchia di più di vent’anni, un passato che presenta un conto salato, una delle molte eredità e macerie lasciate dal Pibe de Oro dietro di sé, lungo la sua scia, nei ruggenti anni ’80 di Napoli e del Napoli. Lui, Careca ed Alemao, i tre campioni stranieri che, tra colpi di genio e monetine, fecero sognare una città intera, avevano creato delle società di comodo all’estero per lo sfruttamento della loro immagine. Quando il fisco iniziò a marcarli, Alemao e Careca si accordarono, mentre lui, Diego, stracciò la notifica come uno qualunque dei suoi avversari, uno che non avrebbe mai avuto il coraggio di rifarsi sotto.
Solo che Equitalia, da allora, lo marca stretto neanche fosse Claudio Gentile, a costo di strappargli la maglia (o gli orecchini, o il Rolex, fuor di metafora) di dosso, come uno di quei difensori vecchio stampo che traccia una linea sull’erba coi tacchetti, due solchi parallelli come il taglio di un rasoio, e ti dice di girare al largo, lontano dall’area. Laggiù non ho gambe per inseguirti, ma se passi la linea è un problema tuo.
“Siempre la stessa historia con l’Italia”, un’area di rigore affollata di mastini in cui entri a tuo rischio e pericolo, una marcatura da cui non puoi evadere neanche se sei un fuoriclasse. “Ho perso vent’anni d’amore” dice Diego, e poi invoca clemenza, il Pibe, non un’amnistia, ma un chiarimento, “per trovare una pace finale con il Fisco e con tutta l’Italia”, un accordo che gli permetta di tornare a Napoli. Poi chiude con un colpo classico dei suoi, un tocco sotto di sinistro spolverato di populismo e dolcezza: “Vorrei un fisco più umano per tutti i cittadini”.
Nonostante le accorate difese di Bagni e Mauro (ex parlamentare, tanto per ricordarcelo), sembra difficile che Maradona possa ottenere un trattamento privilegiato, in questi strani tempi in cui per buona parte dei cittadini (diciamo quelli onesti) l’esattore delle tasse rischia di diventare, invece del luttuoso spauracchio che storicamente rappresenta, un eroe popolare, come sta succedendo a Befera.
Forse questo dribbling non riuscirà, e forse è giusto così. Ma fa niente, c’è sempre un’altra rincorsa, un altro affanno e un’altra partita. Non è mai l’ultima. Si cade e ci si rialza, Maradona l’ha sempre fatto. I bambini infiniti si caricano il mondo sulle spalle e poi, nel momento esatto in cui non riescono più a sostenerlo, lo lasciano cadere. Passano, vivono e bruciano. Ci pensi qualcun altro, poi, a raccogliere cenere e cocci.