Il 23 ottobre scorso, nell’ambito del semestre europeo, la Commissione europea ha respinto il Documento programmatico di bilancio (DPB) italiano per il 2019 a causa di “un’inosservanza particolarmente grave” della raccomandazione indirizzata all’Italia dal Consiglio ECOFIN il 13 luglio 2018. A questa decisione senza precedenti si accompagna la richiesta al governo italiano di presentare entro tre settimane un documento rivisto, più conforme con le regole europee.
La Commissione critica il DPB italiano per quattro motivi:
- Con il DPB, è stato apertamente abbandonato il percorso di convergenza verso l’obiettivo di pareggio di bilancio strutturale a medio termine, prevedendo invece un aumento di 1,4 punti percentuali del PIL rispetto agli impegni precedenti. Tale deviazione verrebbe mantenuta anche nel 2020 e nel 2021;
- L’ufficio parlamentare di bilancio (UPB) ha rifiutato di convalidare le previsioni di crescita nominale sottese al DPB (sopra il 3 percento annuo), in quanto esse si collocano di quasi un punto percentuale al fuori dall’intervallo di confidenza dei previsori del panel dell’UPB;
- Ne consegue che l’obiettivo dichiarato del DPB di ridurre il rapporto debito pubblico/PIL non è credibile;
- La decisione del governo italiano di aumentare il disavanzo pubblico, nonostante le difficoltà legate alla sostenibilità del debito pubblico, comporta il rischio di ricadute per gli altri membri dell’eurozona e dell’Unione.
Non vi è dubbio che l’Italia stia violando il Patto di stabilità. Nella lettera inviata alla Commissione europea il 22 ottobre scorso il Ministro Tria ha dichiarato che il governo “è cosciente di aver scelto un’impostazione della politica di bilancio non in linea con le norme applicative del Patto di Stabilità e Crescita”. Inoltre, fissando l’obiettivo di indebitamento per il 2019 al 2,4% del Pil, essendo l’indebitamento netto per il 2018 già vicino al 2%, l’aumento della crescita del PIL dello 0,6% appare certamente sovrastimato, anche se non tiene conto dell’impatto negativo dell’aumento dei tassi di interesse sugli investimenti privati e l’offerta di credito. Vi sono dunque seri dubbi sulla capacità del governo italiano di rispettare anche l’obiettivo del 2,4% di indebitamento, per non parlare della annunciata riduzione del rapporto debito-PIL.
L’Italia adesso ha tre settimane di tempo per reagire. Il tono generale delle ultime dichiarazioni del governo e delle principali forze politiche che lo sostengono è stato finora conciliatorio, ma nella sostanza prevale un atteggiamento di sfida. Il governo vede il DPB inviato a Bruxelles come espressione degli impegni politici assunti nei confronti dei propri elettori e che esso sia necessario per aumentare la crescita e ridurre la povertà e il disagio sociale. Inoltre, il governo sostiene che gli investimenti infrastrutturali e le riforme amministrative miglioreranno sensibilmente il clima imprenditoriale e saranno una leva per gli investimenti privati. Pertanto, non vi è al momento l’intenzione di modificare il DPB, nonostante qualche allusione alla possibilità di tenere i programmi di spesa sotto i livelli-obiettivo, nel caso le condizioni finanziarie dovessero peggiorare ulteriormente.
In assenza di modiche del DPB, è probabile che la Commissione avvii una procedura per deficit eccessivo (PDE) per il mancato rispetto della regola di riduzione del debito. Per l’Italia, la Commissione aveva fino ad oggi considerato soddisfatta tale regola, nonostante il rapporto tra debito e Pil non scendesse a una velocità adeguata, grazie al rispetto del Patto di Stabilità; pertanto, l’abbandono del percorso di convergenza dall’obiettivo di medio termine sul disavanzo strutturale implica anche il venire meno del rispetto della regola sul debito, conducendo quindi direttamente all’apertura di una procedura per deficit eccessivo. Qualcuno mormora che la Commissione abbia intenzione di accelerare il processo per ottenere una decisione già al Consiglio europeo di dicembre. Ciò potrebbe, secondo l’articolo 126 del TFEU, portare a possibili sanzioni per Italia anche prima delle elezioni europee di maggio.
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Purtroppo, gli andamenti recenti e prevedibili dell’economia e dei mercati finanziari non contribuiscono a rafforzare la credibilità del DPB italiano. La crescita del PIL si è già fermata nel terzo trimestre del 2018 e la maggior parte dei previsori si aspetta che l’economia italiana si fermi o vada in recessione nei prossimi due trimestri. Inoltre, mentre cala la fiducia degli investitori, lo spread fra i titoli di stato italiano decennali e i bund tedeschi si allarga. Gli investitori potrebbero essere ulteriormente destabilizzati dall’accelerazione della PDE da parte della Commissione. Le agenzie di rating stanno rivalutando la situazione: Moody’s ha già declassato i titoli italiani di un punto (a Baa3, un punto più alto di “spazzatura”) e S&P ha mantenuto il rating ma declassato l’outlook in negativo. Il costo del finanziamento per le banche sta aumentando e c’è la concreta possibilità di una nuova stretta del credito, essendo le banche costrette ad aumentare il loro capitale per far fronte alle perdite emergenti sui loro (vasti) portafogli di titoli di debito pubblico.
Poiché la Commissione ha chiarito che non accetterà l’attuale DPB – anche a seguito dell’incapacità di ridurre minimamente il debito pubblico rispetto al PIL nella scorsa legislatura – la questione rilevante è se il governo intenda davvero sfidare le regole europee al punto da mettere in discussione la sua appartenenza all’eurozona (e l’Unione), o se stia solo sondando il terreno per vedere quanto lontano può andare prima di ritirarsi dall’orlo del precipizio.
Alcune dichiarazioni di influenti membri del governo non sono incoraggianti. Ad esempio, il Ministro per gli Affari europei Savona ha recentemente ribadito in pubblico il suo punto di vista per cui l’Italia non vuole uscire dall’euro, ma resta da vedere se saranno le posizioni europee a spingerci fuori. Tuttavia, sembra tuttora probabile che il governo scelga la via del compromesso con le istituzioni europee, mentre i due partiti della coalizione cercheranno di approfittare delle “richieste oltraggiose” provenienti dall’Europa per accrescere il loro consenso elettorale. Certamente, se si dovesse aggravare la crisi di fiducia dei mercati finanziari e dovesse riapparire lo spettro di una perdita di accesso ai mercati per i titoli pubblici italiani, allora il ritorno alla ragione da parte del governo italiano potrebbe dover passare per una “fase Syriza” – quando nel 2015 la chiusura delle banche costrinse il governo greco a tornare a Bruxelles e accettare dure condizioni economiche – e, probabilmente, per una crisi di governo. Il problema in questo scenario è che – a differenza del novembre 2011 quando la pressione dei mercati portò alle dimissioni del governo Berlusconi e alla sua sostituzione con Mario Monti – oggi non esiste un’alternativa politica per formare un governo più sensibile alle richieste della Commissione.
°°°°Questa è la traduzione italiana del Commentary dell’autore pubblicato ieri dal CEPS a Bruxelles e dalla LUISS SEP a Roma