La manovra sulla tassazione delle imprese prevista dalla legge di bilancio per il 2019 è l’esatto contrario di quanto si dovrebbe fare se si volesse favorire la crescita delle imprese.
Abolire l’ACE è una contraddizione in sé: ACE significa Aiuto alla Crescita Economica.
Abolire l’IRI peggio ancora: l’IRI, che doveva entrare in vigore proprio nel 2019, sui redditi 2018, è la vera flat tax per le imprese individuali e le società di persone, perché equipara la loro tassazione a quelle delle società di capitali, con aliquota fissa pari a quella dell’IRES (24 per cento). E comunque l’abolizione ha effetto retroattivo, perché molte imprese hanno iniziato a operare nel 2018 confidando nella sua vigenza.
Potenziare il regime forfettario dei piccoli contribuenti innalzandone in modo spropositato la soglia di ammissione significa trasformare questo regime nel regime “naturale” per circa il 60 per cento delle imprese e dei professionisti soggetti a Irpef, che sarebbero assoggettati al 15 per cento. Senza obbligo di fatturazione elettronica, senza alcuna richiesta di altre informazioni (tipo questionari per studi di settore o per ISA) si determinerà un forte incentivo al sommerso.
L’aspetto paradossale è che il mondo delle piccole e medie imprese non costituite in società di capitali verrà segmentato: i piccoli che rientrano nel regime dei forfettari saranno tassati al 15 per cento; i meno piccoli, soppressa l’IRI, entreranno nel regime ordinario Irpef e subiranno per intero la progressività (fino al 43 per cento), anziché andare a tassazione Ires proporzionale (24 per cento) come le SRL (ordinarie o uninominali).
Questa struttura della tassazione è peculiare. La crescita del PIL dipende anche dal fatto che le imprese crescono di dimensioni, creano più valore aggiunto e più reddito: sembrerebbe quindi ragionevole che il fisco accompagnasse la crescita delle imprese, non che la ostacolasse. Ma la struttura esistente costringe la start-up, appena supera la soglia del regime dei forfettari, a passare a tassazione ordinaria, per poi eventualmente ridiscendere al 24 per cento dell’Ires se decide, crescendo, di trasformarsi in società di capitali. Lo scalino Irpef tra il regime dei forfettari e quello ordinario è un grosso ostacolo, e si accompagna alla tassazione IVA ordinaria e alla fatturazione elettronica, con le connesse maggiori complessità amministrative. E’ un vero “muro” da scalare per una start-up che vuole crescere; deriva in gran parte, come detto, dalla soppressione dell’IRI, che avrebbe tassato le imprese individuali allo stesso modo delle società di capitali. Ed è anche il muro che spingerà a crescere nel sommerso, cioè a restarvi sotto. E’ ragionevole prevedere che pochi cercheranno di superarlo, in salita, mentre molti saranno tentati di trovarvi rifugio, attraversandolo in discesa. Chi, per dimensioni elevate o per correttezza fiscale, non vorrà o non potrà scendere sotto il “muro”, sarà costretto a trasformarsi in Srl, con maggiori complessità e costi amministrativi. Tutto ciò non aiuta certo la crescita, semmai è un forte stimolo all’evasione e al sommerso e un aggravio di costi per le imprese che si trasformeranno in Srl. Peccato, perché è proprio nel bacino delle imprese piccole e medie che si trovano le start-up innovative, è lì il crogiuolo delle innovazioni, della nuova imprenditorialità, degli investimenti, della crescita.
Come detto, la composizione della manovra è parecchio generosa con i piccoli (col potenziamento del regime forfettario) mentre “prende” gettito dalle medie con l’abolizione dell’IRI. La generalità delle imprese, ma in particolare le grandi (Srl o SPA), subiranno aggravi dal venire meno dell’ACE; l’iper-ammortamento e gli incentivi per l’economia 4.0 saranno prorogati ma depotenziati per gli investimenti di importo più elevato; il super-ammortamento sarà soppresso. Le nuove agevolazioni per investimenti e nuova occupazione (cosiddetta mini-Ires) introducono un regime complesso, con aspetti di dirigismo eccessivi, si prestano ad elusioni, sono comunque meno efficaci. Gli effetti negativi per le imprese dell’abrogazione dell’ACE e del super-ammortamento non sono compensati dagli sgravi derivanti dall’introduzione della mini-Ires: l’ISTAT valuta in media un aumento del prelievo Ires di 2,1 punti percentuali.
L’ACE prevede la deduzione dall’imponibile Ires del rendimento figurativo degli apporti di capitale proprio e degli utili reinvestiti effettuati successivamente al 2010. L’ACE ha quindi effetti cumulativi, abbassando progressivamente il carico fiscale in funzione dell’accumulo a riserva degli utili (autofinanziamento) e degli apporti di capitale di rischio. Le fonti di finanziamento “incentivate” (autofinanziamento e nuovo capitale di rischio) potrebbero essere impiegate in vari modi, ma alcuni sono impediti o fortemente limitati dalla norma, in particolare l’acquisto di altre partecipazioni o di attività finanziarie. Resta possibile l’impiego in immobilizzazioni (sia materiali che immateriali) e la riduzione del debito. In sostanza l’ACE vuole incoraggiare gli investimenti, la patrimonializzazione delle imprese, la riduzione del loro debito. E’ una misura che premia le imprese che crescono, investono e si rafforzano patrimonialmente, con effetti cumulativi anno dopo anno. Ne hanno fruito finora oltre un milione di imprese.
La mini-Ires tassa con aliquota ridotta (15 per cento) la parte di reddito complessivo corrispondente alla somma dei costi generati dagli investimenti incrementali in beni strumentali nuovi e dal costo incrementale del nuovo personale dipendente (assunto a tempo determinato o indeterminato), a condizione che l’impresa accantoni a riserva utili dell’esercizio precedente e non proceda a distribuzioni del proprio patrimonio netto.
L’ammontare degli ammortamenti di beni strumentali materiali nuovi è agevolabile nella misura in cui è incrementale rispetto agli ammortamenti dell’anno precedente (cioè nella misura in cui gli ammortamenti complessivi superano quelli dell’anno precedente). Anche per il personale l’agevolazione è limitata alla spesa “incrementale” cioè alla misura in cui la spesa complessiva per personale supera quella in corso nell’anno precedente. Comunque si accede all’agevolazione solo se si sono accantonati utili prodotti nell’anno precedente e non si è distribuito patrimonio netto. La procedura è alquanto complicata e prevede riporti delle eventuali eccedenze non fruite.
Soprattutto la mini-Ires opera sul singolo anno, non esercita gli effetti cumulativi dell’ACE. Obbliga, se l’impresa vuole fruirne su più anni, ad una continua accelerazione del tasso di investimento, che deve sempre eccedere la quota di vecchio capitale dismesso. Mentre il super-ammortamento consentiva di dedurre quote maggiorate per tutta la vita del cespite, la mini-Ires consente benefici solo per il primo anno di ammortamento. Con la mini-Ires, analogamente agli investimenti, le nuove assunzioni debbono sempre eccedere le fuoriuscite di addetti.
Rispetto all’ACE e al super-ammortamento, la mini-Ires incentiva solo gli investimenti in beni materiali ed esclude gli immateriali, cioè gli investimenti in marchi, brevetti, proprietà intellettuali, compreso il software. In sostanza non agevola proprio quegli investimenti che caratterizzano l’impresa 4.0, cioè le imprese più innovative.
Inoltre, la mini-Ires penalizza le riduzioni di patrimonio netto, ma non premia gli apporti di patrimonio (al contrario dell’ACE). L’asimmetria è evidente, e non giustificata. Ad esempio, le imprese in perdita, o con utili da accantonare a riserva insufficienti, non potranno beneficiare della mini-Ires neppure finanziando gli investimenti con nuovi apporti di capitale di rischio.
In sostanza la mini-Ires consegue l’effetto mediatico di poter affermare che, in alcune circostanze, le imprese pagano il 15 per cento, preludio della flat tax generalizzata promessa in campagna elettorale, ma ha effetti incentivanti molto meno efficaci dell’ACE e del super-ammortamento.
Pesa sull’ACE il pregiudizio che favorisce soprattutto le grandi imprese e le banche. Fattualmente sbagliato: l’analisi dell’Istat mostra che gli effetti dell’ACE, in punti percentuali di imposta sgravata, sono più elevati per le imprese con numero di addetti basso (fino a 10). Certo in termini monetari, cioè come ammontare dello sgravio in euro, il beneficio maggiore è sui soggetti più grandi, quelli con utile maggiore. Ma è ovvio: un punto percentuale di calo dell’aliquota comporta in euro uno sgravio di imposta maggiore su chi ha più utile imponibile. Come pure è ovvio che le banche, oggetto negli ultimi anni di forti ricapitalizzazioni, necessarie al loro risanamento, siano beneficiarie dell’ACE. Ma qui occorre che il governo faccia pace con sé stesso: da un lato autorevoli esponenti dichiarano che con il permanere del livello dello spread vicino ai 300 punti base le banche entreranno in sofferenza e occorrerà ricapitalizzarle; dall’altro lato si abolisce l’ACE, che garantisce sgravi fiscali permanenti a chi appunto ricapitalizza.
In conclusione, da tutti i punti di vista la manovra sulla fiscalità d’impresa va contro la crescita: è del tutto incoerente con la crescita del PIL prevista, o meglio auspicata, dal governo.