“Niente è peggio del talento sprecato”, dice Robert De Niro in “Bronx”. Una frase che si potrebbe applicare a tante belle aziende italiane che in questi anni sono passate di mano, anzi, di mano in mano senza ritrovare l’antico smalto. E’ il caso di Mandarina Duck, creatura dei cugini Paolo Trento e Pietro Mannato che nel ’77 fondarono l’azienda di pelletteria ispirandosi alle anatre viste nei loro viaggi in Cina, colorate e viaggiatrici.
Da alcuni anni però Mandarina non vola più, soprattutto nella sua città natale, Bologna, o meglio Cadriano (comune di Granarolo), dove ha sede lo storico stabilimento che gli attuali proprietari, i coreani della E-Land, vorrebbero vendere, svuotare e quindi migrare. E-Land è un colosso da cinque miliardi di euro di fatturato, attivo sui mercati asiatici nel settore della distribuzione del fashion e dell’entertainment, che ha fatto shopping nello stivale negli anni scorsi mettendo in portafogli qualche bel marchio del made in Italy, da Coccinelle (di Parma), a Mandarina, da Belfe, al gruppo Lario.
Per ora a Cadriano il peggio è stato scongiurato, nel senso che è stato firmato un accordo che accontenta tutti. L’intesa prevede “il mantenimento dell’attività sul territorio provinciale – recita una nota – la salvaguardia della maggior parte dei posti di lavoro, la riduzione degli esuberi da 22 a 17 e l’utilizzo di tutti gli ammortizzatori sociali conservativi disponibili per il maggior tempo possibile, oltre ad un accordo sindacale di mobilità”. Meglio che niente, tanto più che l’accordo garantisce la permanenza dell’attività sul territorio “anche in relazione all’attuale presenza di altre società del gruppo E-Land (E-Land Italy e Lario), delle direzioni amministrazione, finanza e controllo, customer service, operations, information tecnology, human resources e altri servizi di staff”. I lavoratori promuovono la decisione: “è stato valutato positivamente il mantenimento di un sito nella provincia di Bologna in cui si costituirà un centro servizi nell’ambito di un piano industriale coerente con gli investimenti e integrato con gli altri stabilimenti italiani del marchio”. Dieci dipendenti partiranno comunque per Milano, dove verrà costituito un reparto “Stile”, 17 andranno a casa e “per le prospettive – prosegue la nota – restano decisivi gli investimenti e le capacità manageriali che verranno messe in campo”. E questo sembra il punto debole dell’intera questione da quando, nel 2008, Paolo Trento decise di uscire di scena e la sua creatura passò a Mariella Burani e di lì a poco finì nel calderone del fallimento, quindi nel 2011 approdò nelle in mani coreane.
Molta acqua è passata sotto ai ponti dai fasti degli anni 2000, quando il fatturato volava vicino ai 200 miliardi di lire e i dipendenti erano oltre 150 a Bologna, ancor più dagli anni ’80, quando Mandarina esplorava ante litteram i tessuti “tecno”, o lanciava uno zainetto cult come Utility, sogno di ogni sbarbina dell’epoca. Il fatturato, secondo i giornali bolognesi, negli ultimi anni non ha fatto altro che calare: dai 40 milioni nel 2011, si passa a 32 milioni nel 2012 e si stimano 21 milioni nel 2013. La spinta innovativa di Mandarina, la sua capacità di essere pratica e bella, di essere fashion, sembra essersi smarrita. Per il sindacato, che in queste settimane si è molto battuto, il punto di attuale approdo è frutto della “incapacità gestionale” da parte del nuovo proprietario, “con la conseguente perdita dell’investimento iniziale”, che doveva servire a rilanciare il marchio con un progetto retail in Asia, e che “ha prodotto solo l’apertura di sei punti vendita in Cina in due anni”. Eppure i dipendenti di Mandarina, quelli che l’hanno vista volare alta e e fiera, sono convinti che il marchio mantenga intatto suo appeal. “Siamo sopravvissuti anche se in pochi anni abbiamo cambiato due amministratori delegati e non so quanti direttori – dice un dipendente – mentre gli stilisti da 5 sono scesi a uno”. Insomma forse basta crederci, perché niente è peggio del talento sprecato.