Il mal di Alitalia torna prepotentemente alla ribalta in questi giorni ma, per comprenderlo fino in fondo, vale la pena di concentrarsi sugli ultimi vent’anni della compagnia e cioè sul cosiddetto ventennio Alitaliano. Ma perché solo sull’ultimo un ventennio? In fondo la storia della compagnia è ben più lunga e basterebbe scorrere la sequenza dei “ribaltoni” manageriali, dei risultati economici e degli interventi sul capitale effettuati dall’IRI negli anni ‘70 e ’80 per rendersi conto che la storia interessante e “maestra di vita” sarebbe ben più lunga. Ma la situazione di monopolista sul mercato domestico, la più vincolante regulation dei cieli mondiali e la normativa europea meno stringente in materia di tutela della concorrenza e di aiuti di stato consentivano in quegli anni una gestione, se non meno polemica, almeno meno drammatica delle inefficienze della compagnia e delle debolezze strutturali del sistema trasportistico Italiano.
E poi le “storie dell’Alitalia dall’origine ai dì nostri” non mancano di autori (come sempre più o meno profondi nell’analisi). Sicché, forse non vale la pena andare tanto più indietro del 1997, più o meno l’anno in cui i guai per la cosiddetta compagnia di bandiera si fecero più seri e addirittura deflagrarono, quando (appunto nella primavera del ’97) entrò finalmente in vigore la piena liberalizzazione del trasporto aereo Europeo; un evento “storico” per l’intero settore rispetto al quale l’Italia si dimostrò – manco a dirlo – clamorosamente impreparata.
Impreparata perché culturalmente incapace di affrontare con univoca e costante determinazione i nodi fondamentali della “questione Alitalia”, intrecciati fra loro in maniera apparentemente inestricabile: troppo grande per essere una regional e troppo piccola per essere un operatore internazionale del livello delle sopravvalutate ambizioni nazionali in un contesto altamente competitivo e ormai largamente deregolato, focalizzata su un mercato relativamente povero di traffico high yield, frammentato strutturalmente ed esposto – per la natura delle sue destinazioni – alla aggressiva competizione di low cost carriers, Alitalia, almeno fino alla sua recente privatizzazione (poco oltre la metà del “ventennio” in discorso), avrebbe avuto la necessità di un azionista che volesse costantemente fare il suo mestiere e con la determinazione necessaria.
E invece il suo azionista “solennemente” pubblico (ricordiamo che il controllo di Alitalia nel 2000 era passato dall’Iri al Tesoro) esprimeva nei fatti – ahimè! per la sua stessa natura – un’anima duplice ed eternamente incerta (lo chiameremo come Carlo Alberto, l’Italo Amleto): da un lato, “un’anima tecnica” che non poteva non vedere chiaramente ciò che si doveva fare (del resto le diagnosi erano relativamente facili e quelle dei vari top-managers che si sono succeduti in quel periodo, alcuni addirittura venuti dagli Stati Uniti e lì ora tornati in posti di grande rilevo nel settore del trasporto aereo, erano sostanzialmente d’accordo sulla “ricetta”); dall’altro, “un’anima politica” che, per (miopi) ragioni sociali, per convenienze localistiche o per (folli) fisime patriottiche, temeva di lasciar fare quel che si doveva fare.
Il fatto è però che questa sorta di amletica schizofrenia generava due devastanti effetti; primo effetto: ostacolava l’esecuzione dei piani che, esso stesso azionista, l’Italo Amleto, sollecitava e solennemente approvava. Gli strumenti, quelli classici di queste situazioni: interminabili negoziazioni triangolari (azienda-sindacati- governo), mancata esecuzione degli impegni che il Governo stesso assumeva approvando il piano (prima di tutto, sugli ammortizzatori sociali necessari per la gestione dei piani), “inviti” al management a congelare questa o quell’azione che per sua natura richiedesse il concorso operativo del Governo (e, quindi, “inviti” per modo di dire), etc etc.. A malapena riuscivano ad andare avanti quelle parti di piano di ristrutturazione che non richiedevano il concorso formale della volontà del governo: le salutari riduzioni di perimetro del Gruppo (la cessione del charter, dell’agente di viaggi, della sede sovradimensionata, la cessione di attività ancillari o l’outsourcing di servizi non-core, etc).
Ma non poteva bastare per evitare le conseguenze, anch’esse quelle classiche in queste situazioni: l’azionista, alla fine, ovviamente, doveva pro-quota mettere a disposizione le risorse necessarie per coprire le perdite inevitabilmente generate dalla forzata paralisi dell’azienda sui temi chiave della sua ristrutturazione ma anche – e questo non va dimenticato, come spesso purtroppo accade, nel periodo di cui parliamo – dalle straordinarie contingenze negative del mercato (ricordiamoci, qui, che tra il 2000 e il 2007 il mercato del trasporto aereo censito a livello globale da IATA registrò perdite nette per quasi 18 miliardi di $, di cui ben 37 concentrati nel periodo 2001-04 quando il trasporto aereo conobbe la più profonda e prolungata crisi della sua storia, in conseguenza degli eventi delle Twin Towers dell’11 settembre 2001 e della successiva seconda guerra del Golfo).
Il secondo effetto: l’amletico azionista condizionava gravemente e – come vedremo subito – anche comprometteva la pur invocata politica delle alleanze, peraltro nel frattempo divenuta vitale nel contesto di un settore (quello del trasporto aereo dei Full Service Carriers) caratterizzato dalla grande concorrenza e dalla necessità di consolidamenti dimensionali a livello transnazionale e, anzi, globale (ricordiamoci, qui, che fra il 1997 e il 2000 presero vita le tre grandi global alliances – Star, OneWorld e Skyteam – che raggruppano oggi, a vario titolo, un centinaio di compagnie nel mondo). Così cadeva nel 2000 l’alleanza con KLM (motivi: mancato avanzamento della procedura di privatizzazione che costituiva uno dei presupposti dell’alleanza; disciplina del traffico aereo sul nodo Linate Malpensa non conforme alle intese raggiunte). Così “saltava” il presupposto della fusione con AF-KLM nel dicembre 2003; in questo caso l’italo Amleto sentì anche la necessità di una attenta “simulazione” scenica, a riprova dei suoi tormenti: il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri
necessario per dare il via all’accoppiata privatizzazione-fusione, dopo sofferta gestazione, veniva effettivamente approvato dal Governo nel novembre 2013. E la cosa da tutti – Alitalia per prima ma anche Air France e KLM – venne salutata come la svolta risolutiva e tanto attesa, ma…..; ma in sede di acquisizione del parere obbligatorio ma non vincolante del Parlamento, la determinazione del Governo venne meno e, per difendere l’italianità della Compagnia, praticamente il DPCM naufragò.
Con “l’italianità dell’Alitalia” faceva così capolino – e siamo quasi alla fine del periodo del controllo pubblico di Alitalia – il tema “nuovo ed antico”, quello che, in sostanza, innescò la prima “scena finale” della vicenda “vecchia” Alitalia: dopo un altro giro di valzer manageriale, eccoci ad un Presidente ad acta, incaricato di gestire (finalmente!) l’agognata privatizzazione. Bene: si fa la procedura, con l’assistenza di signori advisor l’azienda viene incaricata di vendere se stessa, previa due diligence si arriva ad un’offerta vincolante di AirFrance-KLM, si firma un contratto di cessione, ma….; ma rispunta l’Italo Amleto, stavolta al grido “darla ai Francesi è come buttarla via”, e i sindacati gettano sul tavolo la loro spada di Brenno: riportare Alitalia Servizi in Alitalia (Alitalia Servizi era lo spin-off realizzato nel novembre 2005 per scorporare le attività non core), prevedere l’ingresso di Fintecna nel capitale Alitalia, ripianificare “lo sviluppo”. Risultato: AirFrance-KLM si alza dal tavolo, il Presidente di Alitalia si dimette, AirFrance-KLM si ritira formalmente e, dopo un breve disorientamento, parte l’operazione “capitani coraggiosi”.
Il resto della seconda parte del ventennio in discorso è cronaca: misure straordinarie di inusitato costo per la collettività assistono l’operazione di alleggerimento di Alitalia, un nuovo “finanziamento-ponte” per consentire l’ordinato passaggio al nuovo mondo, una azienda disegnata a misura dei nuovi azionisti viene scorporata dalla “vecchia” Alitalia e ceduta alla cordata “promossa” da Berlusconi, le normative Antitrust vengono sospese per consentire la fusione con AirOne (secondo vettore Italiano) e partono due storie separate: da un lato la triste Amministrazione Straordinaria di ciò che non è passato ai nuovi azionisti; e, dall’altro, l’avvio speranzoso della Nuova Alitalia.
Bene, si sarebbe detto: finalmente l’Alitalia è diventata privata, è rimasta tutta Italiana, ha trovato degli azionisti che sapranno ben fare il loro mestiere. Purtroppo, sappiamo bene come è andato avanti il processo: i nuovi azionisti della nuova Alitalia, collezionate un bel po’ di perdite, hanno passato la mano, è entrata Ethiad (al 49%, per preservare i diritti di compagnia Europea…e, forse, la famosa “italianità”), le perdite hanno seguitato a correre (un altro paio di miliardi di € malcontati fra il 2012 e il 2016) nonostante – e questo è il fatto più preoccupante e in qualche modo diverso dal passato – il mercato rilevato da IATA nello stesso periodo abbia portato a casa utili enormi (un centinaio di miliardi di $!). E ora siamo di nuovo a domandarci in che modo uscirne.
Forse, se volessimo porci delle domande finali per questa carrellata nel ventennio Alitaliano, ci si potrebbe chiedere: tutti fessi i manager che si sono succeduti alla guida di Alitalia vecchia e nuova? Tutti incapaci, collaudati boiardi e boiardini, prestigiosi manager privati, nazionali e internazionali? O c’è qualcosa con cui non abbiamo mai voluto fare veramente i conti? Per esempio, la effettiva dimensione del nostro mercato per operatori full service, la massa critica delle nostre dimensioni, la destinazione Italia che sembra fatta apposta per il traffico low cost (molti aeroporti, traffico in entrata low yield), l’ isolamento strategico nel contesto Europeo, la necessità di ricercare “sinergie” operative soprattutto in tale contesto? E’ ora di pensarci e di aprire gli occhi.