Il settore alimentare è quello più colpito, assieme ai vini, alle auto, la meccanica strumentale, il tessile, metallurgia, farmaceutici, chimica ecc. dai dazi di Trump e adesso anche dalla Brexit. Nel 2018 le nostre esportazioni verso gli Usa hanno raggiunto i 42 miliardi e 400 milioni di euro, il flusso inverso e di circa 16 miliardi. Sembra del tutto logico che nel tentativo di attirare voti, il sovranista Trump faccia il sovranista. Questa politica autarchica conduce al mors tua vita mea. Prima si capirà che i dazi non hanno mai prodotto nulla di buono, per la convivenza mondiale, e prima se ne uscirà, con le ossa un po’ rotte purtroppo.
Per capire un po’ meglio come si riflette tutto questo su un piccolo artigiano, come ce ne sono circa un milione in Italia, anche alla luce della crisi che attraversa il nostro Paese, prendiamo il caso di Simone Fracassi, di Rassina, in Casentino, provincia di Arezzo. Da quattro generazioni la famiglia di Simone gestisce la macelleria e la salumeria casentinese. La fortuna di Simone è stata quella di nascere sull’Appennino e avere dei nonni, uno in particolare, che gli hanno insegnato tutto su come allevare le chianine e i maiali per farne bistecche e prosciutti, salumi e altri tagli “poveri”, per una gastronomia di qualità. I suoi prodotti sono eccellenze del “Made in Italy”. Simone gira il mondo, Dubai, Buenos Aires, New York, Londra, invitato per mostrare i suoi metodi di produzione e di lavorazione delle carni. I più grandi chef italiani e stranieri si servono da lui per le bistecche di chianina. Tuttavia quando si tratta di esportare sorgono i problemi, anche se le richieste sono numerose e continue.
“Dopo la burocrazia e le certificazioni, – dice amareggiato – i maggiori problemi per l’esportazione arrivano dai trasporti, dai dazi, la logistica, gli importatori… Lo sdoganamento deve essere immediato, perché le carni sono deperibili e non possono stazionare a lungo in dogana. Per un piccolo è un problema. Per una grande azienda un po’ meno. Ha le Dop e le Igp, produce tonnellate di prodotto e questo lo agevola nella esportazione. Riescono ad avere spese più dilazionate. Diciamo che loro hanno facilitazioni che noi piccoli non abbiamo.”
Un artigiano come Simone, che alleva maiali e produce insaccati e prosciutti, sa che le gambe posteriori sono il 20% dell’animale e il resto, che serve a fare anche i salami, è l’80%. Però si vende più prosciutti che salami e bistecche di maiale. Allora deve favorire l’ingresso nella sua bottega di quei prosciutti che mancano e bloccare invece i salami.
Questo succede in America. Si seleziona coi dazi. Si aumenta il dazio su salami e mortadelle, che possono produrre gli stessi americani o italiani d’America, si lasciano entrare i prosciutti, Parma e via discorrendo, che troviamo sui mercati di New York a prezzi uguali se non più bassi di quelli che produce, per esempio, Cesare Casella. Chef lucchese, trasferitosi da tempo nella Grande Mela e che s’è messo in testa di produrre prosciutti buoni coi maiali allevati come si deve, nel Michigan. Poi trova la concorrenza del Parma. Ci si domanda come sia possibile che un prosciutto fatto in America, con maiali americani, seguendo tutte le norme della produzione “Made in Italy”, possa costare quanto o più di un prosciutto di Parma. La risposta datela voi.
Made in Italy: non sempre è il migliore
Non sempre il “Made in Italy” è tale per qualità e per lavorazione, non sempre il “Made off Italy” o l’“Italian Sounding” è peggio, anzi. Ci sono parmigiani fatti in Argentina e in Canada che, all’assaggio, nulla hanno in meno del nostro grande Parmigiano Reggiano. Se non si leggesse sopra che è prodotto in Argentina non lo capiremmo. Senza contare che vige la brutta abitudine di vendere il Grana già grattugiato, per cui vallo a riconoscere cos’era e da dove arrivava. Queste cose bisogna cominciare a dirsele, se non vogliamo continuare a piangerci addosso, raccontandoci barzellette.
Probabilmente in Italia si dovrebbe proteggere di più le piccole botteghe artigiane, che producono secondo i criteri classici di una volta ma con le tecnologie e i controlli moderni. Invece si preferisce aiutare la grande industria alimentare, perché vende grandi volumi e impiega molta manodopera. Ma questa grande industria alimentare da tempo ha capito che si può delocalizzare parte della produzione. Per esempio il latte si produce e si compra all’estero. Con quale latte si pensa che si facciano le burrate e le mozzarelle e le trecce pugliesi? Qualcuno ha visto centinaia di allevamenti di vacche da latte in Puglia? No, viene dalla Germania, sgrassato, per renderlo simile a quello italiano. Pensate un po’, abbassandone quindi la qualità… e poi si tramuta in prodotti che invadono il mondo.
La mozzarella di bufala viene risparmiata dai dazi di Trump. Certo. Non ce l’hanno e vende molto negli Stati Uniti. Ma coi dazi loro invece proteggono il “Parmesan” e tutti i formaggi a pasta dura e anche il Gorgonzola, che ha grandi concorrenti in America. Secondo il presidente di Assolatte, Giuseppe Ambrosi : “Gli Stati Uniti hanno deciso di procedere con l’aumento dei dazi colpendo in particolare le esportazioni di formaggi italiani (e francesi), per cui parliamo di 35 mila tonnellate per un valore di 280 milioni di euro.” Il dazio di Trump costerà al Parmigiano Reggiano 30 milioni di euro, facendone il prodotto più tartassato di tutti quelli importati negli Usa. Prima dell’entrata in vigore dei dazi, c’è stata la corsa all’accaparramento delle forme preziose, per poi lucrare sulla rivendita una volta aumentato il prezzo. I prezzi saliranno quindi e la nostra esportazione subirà un calo, si parla del 20%.
Gli artigiani restano soli con la loro qualità
Il problema tuttavia non sono solo i dazi, ce n’è uno quasi insuperabile, le leggi straniere. L’artigiano italiano si trova – da solo – a far fronte a leggi costruite per favorire l’industria alimentare straniera. Le nostre produzioni, frutto di storia e tradizioni secolari, rispettano criteri di qualità dell’allevamento e della lavorazione stessa delle carni e, per questo, i prodotti sono più cari. Ma forse, in alcuni casi, anche più buoni. Quando si parla di esportazioni verso paesi extra europei, come gli Usa e l’Australia, la Nuova Zelanda e il Giappone, noi ci troviamo di fronte a leggi, che non ci consentono di esportare agevolmente. Il nostro tipo di lavorazione delle carni, le nostre tecniche, non sono accettate dalle loro leggi.
“Se voglio portare il mio prodotto in America, sostiene Simone, vengo sottoposto a un controllo della FDA (Food and Drugs Administration). Se non metto conservanti chimici secondo loro, io non posso entrare negli Stati Uniti. Io non uso niente di chimico. Rispetto l’animale, lo allevo con foraggi scelti, allo stato brado, non uso mai nulla di chimico nella stagionatura. Il mio prodotto è scientificamente provato salubre. Perché dovrei aggiungere la chimica? Noi investiamo tanto nella agricoltura bio, abbiamo la coscia di suino presidio Slow Food, perché dovrei snaturare il mio prodotto per renderlo come quello americano? Il prosciutto San Daniele si fa con lo zampetto, come il “pata negra” spagnolo e gli americani chiesero di toglierlo, per motivi di igiene. Voi capite che si tratta di assurdità legali di persone incompetenti. Ma noi ci troviamo sempre a discutere con incompetenti.”
Lo scontro quindi è tra un prodotto nazionale genuino fatto secondo tradizione e le esigenze di una distribuzione di massa, nei supermercati, che richiede tempi lunghi di conservazione per tutelare la salute dei consumatori. Ma se il fruitore non viene colpito dal botulino, deve però ingerire i “nitrati”, altrettanto pericolosi, che servono come antimicrobici e antisettici. I nitrati, poi, in ambiente acido (stomaco) si trasformano in nitriti che a loro volta possono evolvere in N-nitrosammine, conosciute come altamente tossiche e cancerogene. Questa la ragione per cui spesso i medici sconsigliano di consumare troppi salumi.
Da dove e come si apprezza quindi la salubrità e il miglior gusto del prodotto artigianale? Simone sostiene la veridicità dell’etichettatura, che parla della storia del prodotto. L’appartenenza comprovata a una DOP ma anche il sapore riconoscibile. Il grasso per esempio. Se si scioglie in bocca e ha una persistenza di sapore nel palato, si sente la differenza con altri grassi più duri e con un gusto più corto. Per apprezzare la qualità e la salubrità bisogna pagare di più e avere la cultura gastronomica affinata. Cosa che al grande pubblico non si può chiedere e quindi vince il prezzo e la pubblicità, l’immagine.
Il mercato dell’alimentazione ha da tempo scoperto che il “brand” italiano è vincente. Si vende bene, a tutte le latitudini. Solo che il prodotto italiano che si trova all’estero è un prodotto che, passa si al vaglio delle burocrazie straniere, ma è di livello medio basso. Dove un compromesso tra prezzo e qualità ne consente la commercializzazione, per un pubblico non proprio attento conoscitore dei nostri sapori. Questo ne rende anche più facile l’imitazione da parte degli imprenditori stranieri, attirati dalle fortune del “brand” italiano. Ci sono formaggi olandesi che usano nomi italiani (Bella Donna), aziende spagnole e americane acquistano marchi di olio extravergine di oliva e paste alimentari italiane per immetterle sui mercati internazionali, magari lasciando solo il nome e utilizzando materie prime diverse dalle nostre. Per aggirare i dazi che alzano i prezzi, molti imprenditori italiani decidono di andare a produrre fuori dell’Italia. C’è chi lo ha fatto in Russia per aggirare le sanzioni. Chi lo fa negli stati Uniti e in Argentina per raggiungere i clienti con prodotti “finto italiani” ma con prezzi accessibili.
Simone Fracassi
“Se Trump mette i dazi fa il suo interesse, sostiene Fracassi, noi non facciamo abbastanza il nostro. Quando sono dovuto andare in Canada, nel 1985, per portare miei prodotti ho dovuto sostare 5 ore all’aeroporto di Boston e pagare 50 € per poi potermene andare. Se facessimo lo stesso coi turisti americani che vogliono vedere Venezia, Firenze, Roma e assaggiare la nostra cucina, dovremmo mettere una tassa d’ingresso di 10 dollari per ogni turista, finché loro mettono dazi sui nostri vini e formaggi. Così si pareggerebbe il conto. Noi abbiamo molte richieste di turismo, loro molte di salumi e formaggi italiani…
Per noi piccoli i problemi dei dazi sono minori, perché non riusciamo ad esportare come chiede il mercato. Se fosse possibile esportare, occorrerebbe una capacità contrattuale delle nostre istituzioni governative, tale da poter convincere lo straniero che un prosciutto del Fracassi non lo puoi trattare come se fosse quello di una grande industria alimentare. Perché rispetta di più e meglio i criteri di salubrità ma che è fatto in maniere diverse, che affondano nella notte dei tempi e per le quali è venuto così buono e diverso. “
Ma se ne avesse l’opportunità, Fracassi andrebbe a produrre all’estero per abbassare i costi e aggirare le leggi? “Ho 54 anni e vorrei avere meno grattacapi e problemi di imposte e di burocrazia qui, per essere agevolato anche nella esportazione. Se ci aiutassero per esempio investendo un milione su ogni piccola impresa, noi quel milione lo faremmo fruttare in miglioramento della produttività e con due posti di lavoro. Altro che Reddito di cittadinanza. Due posti di lavoro per un milione di aziende artigiane sono due milioni di posti di lavoro. Io vorrei produrre qui e costringere lo straniero a venire a mangiare le cose buone a casa nostra. Qui da noi c’era la Lebole che via via s’è trasferita in Tunisia e poi è fallita… Io non vorrei trovarmi come la Lebole. Vorrei che l’Italia tornasse a produrre come sappiamo e se ci mettono dazi noi gli faremo pagare i nostri, quando vengono a star bene da noi. Ci sarebbe bisogno di supporto. Che non ci sfiancassero con la burocrazia e i controlli, che le città funzionassero, che fossero pulite, che non crollassero i ponti e non si venisse bloccati in montagna dalle frane e dalle inondazioni in pianura, che chi lavora e produce venisse agevolato e non ostacolato e guardato con sospetto, insomma che tutto tornasse a funzionare come si deve in un paese moderno e civile.”