Un po’ di destra, un po’ di sinistra. Riformista, ma anche conservatore. Laico, ma che non manca di ricordare i valori fondanti della cristianità. Convinto europeista, ma anche capace di giocare in difesa di quell’orgoglio nazionalista che da sempre contraddistingue la Francia, sia nell’industria (si ricordi la vicenda Fincantieri, poi chiusa in modo conveniente per tutti) che nelle politiche sui migranti, sulla quale Parigi non fa sconti a nessuno. Emmanuel Macron, il più giovane presidente della Repubblica, festeggia oggi un anno esatto dalla sua elezione all’Eliseo: era il 7 maggio 2017 quando, al secondo turno delle presidenziali, stracciò l’estremista Marine Le Pen con oltre il 66% dei voti, pari a più di 20,7 milioni.
Macron chiude il suo primo anno di mandato con più luci che ombre e con una certezza: è il primo leader post ideologico di successo a livello mondiale, escluso il presidente Usa Donald Trump, che però rimane un discorso a sé e non brilla certo per appeal internazionale. Il successo del 40enne ex banchiere dei Rotschild, laureato in filosofia con una tesi su Machiavelli, è stato invece costruito soprattutto fuori dai confini della Francia. Se infatti nel suo Paese il presidente deve subire delle contestazioni (particolarmente feroci quelle in piazza in occasione della festa del 1° maggio), negli ultimi mesi ha saputo benissimo approfittare di Brexit, della momentanea incertezza tedesca e del caos italiano per riaffermare il ruolo di Parigi sulla scena europea e non solo. Si pensi all’intervento militare in Siria e all’accoglienza ormai privilegiata che il leader di En Marche riceve alla Casa Bianca: il suo dialogo con Trump potrebbe rivelarsi fondamentale soprattutto sulle questioni ambientali, sulle quali il tycoon è sempre restio, ma anche sulla politica commerciale.
Proprio dopo le pressioni ricevute dall’Europa attraverso una lettera congiunta firmata da Macron, Merkel e May e spedita a Washington, l’inquilino della Casa Bianca ha deciso di rinviare l’applicazione dei dazi sui prodotti provenienti dal Vecchio Continente di un mese, al 1° giugno, mentre sono già in vigore quelli nei confronti della Cina. Non mancano però i successi nemmeno sul fronte interno. A differenza del suo predecessore François Hollande, che aveva visto precipitare la sua popolarità ai minimi storici dopo il primo anno di presidenza, Macron tiene botta: qualcuno storce il naso di fronte al suo “multiculturalismo politico”, come lui stesso lo ha definito, ma i dati dicono che l’economia è tornata a crescere e deficit e disoccupazione sono scesi. Addirittura il rapporto deficit/Pil si è ridotto al 2,6%, migliorando le stime dello stesso governo, ferme al 2,9%: per la prima volta da quasi dieci anni la Francia è scesa sotto il 3% raccomandato da Bruxelles.
Le prime riforme sembrano dunque funzionare, anche se ai francesi, che pure sono il popolo di Napoleone Bonaparte e del gollismo, ciò che non va sempre giù è il metodo: Macron, pur avendo una maggioranza alla Camera solida, grazie al sistema elettorale francese che è stato in grado di premiare un partito che al primo turno aveva preso il 24%, sta facendo un ricorso senza precedenti ai decreti governativi. Secondo un recente sondaggio IFOP, il 73% degli intervistati ritiene Macron “autoritario”, e meno del 30% lo ritiene “vicino ai cittadini”. E’ passata per decreto, ad esempio, la Loi Travail, prima riforma portata a casa nel 2017, che però non aveva convinto i sindacati. Particolarmente discussa la norma sul licenziamento economico, che consente all’azienda (salvo che in alcune situazioni e per alcune categorie protette) di licenziare legittimamente se dimostra un netto calo del fatturato o un aumento delle perdite.
Il Jobs Act alla francese riduce anche le possibilità di ricorrere al Tribunale del lavoro (tende insomma a tutelare il datore, anche attraverso la riduzione dei termini per i ricorsi), anche se in compenso aumenta le indennità da licenziamento. Tra le altre cose già fatte, va citata la progressiva riduzione, a partire da quest’anno, della tassa sulla prima casa per l’80% di chi la paga. L’obiettivo è abolirla entro il 2020 ed estendere il diritto anche al restante 20% dei proprietari immobiliari, cioè la fascia più abbiente. Per questa ulteriore mossa servono però altri 10 miliardi e pare che Parigi, non volendo aumentare le tasse, sarà costretta a tagliare la spesa pubblica. Dal 2018 è anche scattata la flat tax al 30% per le rendite di capitale (in attesa di quella sulle imprese, che da programma dovrebbe scendere dal 33,33% al 25%), una norma considerata un favore ai ricchi, mentre dal 1° gennaio di quest’anno è aumentato il prelievo per i contributi sociali, salito al 9,2% per i salariati.
Macron ha anche lanciato il “passe culture”, bonus cultura praticamente copiato da quello di Renzi: 500 euro per i diciottenni, ma anche una app scaricabile da tutti per segnalare e promuovere eventi culturali. Prossimo obiettivo: le pensioni. Non sarà toccata l’età pensionabile, come volevano fare quasi tutti gli altri candidati alle presidenziali di un anno fa, abbassandola (eccetto il repubblicano Fillon che voleva persino alzarla), ma il presidente francese sogna un sistema unico, che sostituisca gli attuali 37 regimi legislativi, ognuno per ogni caso specifico. Dunque pensione sempre a 62 anni e sempre gli stessi anni di lavoro necessari per raggiungerla, ma flessibilità nel senso che chi vuole potrà andare in pensione prima, perdendo solo la parte della quota non maturata, mentre chi vorrà lavorare oltre i 62 anni avrà il diritto di farlo e si costruirà così una pensione più elevata.
Non mancano, però, le ombre. Mai come nelle ultime settimane, la Francia è stata paralizzata dagli scioperi: la grana più grande è quella della Sncf, la società ferroviaria che ha lanciato un piano di razionalizzazione per coprire il debito e che dal 2020 dovrà confrontarsi con l’apertura della rete ferroviaria ad altri operatori (la Francia ad oggi è l’unico Paese europeo con il monopolio statale sulla rete ferroviaria). I sindacati, letteralmente inferociti, hanno proclamato uno sciopero ad oltranza iniziato il 3 aprile scorso e che andrà avanti fino al 28 giugno, con 48 ore di agitazione ogni cinque giorni. Per lo stesso motivo – la liberalizzazione del mercato – sono in arrivo scioperi anche nel settore energetico, mentre rimane sempre caldo il dossier Air France. Proprio venerdì i dipendenti della compagnia aerea hanno bocciato il nuovo contratto proposto dall’Ad Janaillac, che per questo motivo si è pure dimesso.
Macron, un anno dopo: un leader dinamico e innovativo, che però piace più all’estero che nel suo Paese. Anche perché, quando c’è da decidere, decide senza paura di scontentare le vecchie arciconfraternite del potere.