La Liberazione è una festa italiana, ma da domenica sera anche in Francia c’è aria di liberazione. Non tanto, o comunque non ancora, dal populismo del Front National, che sembrava il vincitore annunciato sulla scia di Brexit e Trump (e dei numerosi attentati terroristici subiti dalla Francia, l’ultimo a pochi giorni dal voto) e che invece si presenterà al ballottaggio del 7 maggio da sfavorito, quanto dai partiti tradizionali. Già, perché la perdita di consenso dei partito repubblicano, che nel 2007 con Sarkozy aveva ottenuto oltre il 30% al primo turno, e soprattutto del partito socialista, reduce da un’esperienza di governo con Hollande giudicata da molti disastrosa e precipitato al minimo storico, il 6%, è stata una vera e propria emorragia.
ADDIO QUINTA REPUBBLICA – La prima indicazione del voto francese è dunque la fine della quinta Repubblica, quella segnata dal dualismo tra la gauche e i gollisti: entrambi hanno perso milioni e milioni di voti, segnando il loro peggior score di sempre, sul fronte socialista persino peggio – ed era difficile riuscirci – del flop di Lionel Jospin del 2002, quando raccolse un deludente 17% mandando per un pugno di voti al secondo turno Le Pen padre, poi asfaltato da Chirac che venne confermato all’Eliseo. Quella è stata l’unica volta in cui uno dei due partiti storici della scena politica francese non si è “qualificato” al ballottaggio.
Stavolta sono addirittura fuori entrambi, a vantaggio di Emmanuel Macron, che pur dell’ultimo e contestato governo ha fatto parte, ma che ha saputo poi compiere un piccolo capolavoro andando a riempire i tanti spazi vuoti di un Paese elettoralmente disintegrato, come dimostra anche il sorprendente 19% ottenuto dal radicale di sinistra Mélenchon e lo stesso 21,5% di Marine Le Pen, l’altra beneficiaria del ko dei grandi partiti. La figlia d’arte, che ha spopolato nella Francia profonda a differenza di Macron, plebiscitato a Parigi e nelle grandi città, ha sì ottenuto meno di quanto indicassero i sondaggi della vigilia e, in termini percentuali, delle regionali del 2015, ma ha comunque migliorato il record di sempre di consensi per il suo partito, che antepone all’euro-entusiasmo di Macron addirittura l’uscita dall’Ue e dalla moneta unica: 7,64 milioni di voti, contro i 6,42 del 2012 e i 6,82 delle regionali di dicembre 2015. Il padre Jean-Marie nel 2002 raggiunse il ballottaggio con molto meno (5,55 milioni di voti) e infatti perse nettamente, raccogliendo meno del 18%, la stessa percentuale che di fatto ottenne al primo turno.
IL BALLOTTAGGIO – Quindici anni fa tutti gli elettori, esclusi i fedelissimi dell’estrema destra, andarono dunque a votare “contro” il FN al secondo turno, preferendo (anche turandosi il naso, come si disse all’epoca con espressione montanelliana) confermare Chirac con un consenso che questa volta non è ipotizzato nemmeno dai sondaggi, che vedono Macron sì vincente ma “solo” col 63-64%. Il quadro è molto cambiato: la crisi e il terrorismo hanno fatto crescere l’antipolitica, Macron non ha un partito solido alle spalle (ma solo un movimento, En Marche, fondato appena un anno fa), e finora ha ottenuto l’endorsement di socialisti e repubblicani, che però non portano tantissimo in dote, ma non quello di Mélenchon, che ha vagamente fatto intendere di non voler sostenere Le Pen, senza però schierarsi – per ora – apertamente con l’astro nascente della politica europea.
Macron, che non ha ancora 40 anni e vanta già una carriera da banchiere della famiglia Rothschild e da ministro dell’Economia, si è laureato in filosofia con una tesi su Machiavelli ed è l’uomo che al momento sta salvando l’Europa: lo si è visto con la reazione dei mercati finanziari ma anche col plauso di economisti e leader politici di tutto il mondo, a incominciare dall’ex presidente Usa Barack Obama. E’ già stato capace di convincere 8,6 milioni di francesi e a bocce ferme parte da un milione di voti di vantaggio sull’avversaria, sostenitrice di Frexit, dell’amicizia a senso unico con Putin e di politiche sociali ed economiche che favoriscano “prima di tutto i cittadini francesi”: “Voglio essere il presidente dei patriottici contro la minaccia dei nazionalisti”, ha replicato Macron sintetizzando l’essenza del confronto.
ELEZIONI LEGISLATIVE – Ma per lui, qualora dovesse venire eletto Presidente della Repubblica, le insidie non sarebbero finite. Incassata la fiducia dei francesi e l’euforia di Bruxelles e dei mercati, si troverebbe nel giro di poche settimane di fronte a un altro scoglio: le elezioni legislative. Il sistema elettorale francese prevede infatti che il Presidente della Repubblica venga eletto direttamente e con una tornata a parte rispetto a quella che chiama i cittadini a decidere la composizione del Parlamento, che poi esprimerà un premier e un governo. E’ un sistema che ricorda quello americano, nel quale è previsto – e non capita di rado – che un presidente, come è toccato allo stesso Obama nell’ultima tranche del suo mandato, non abbia la maggioranza in assemblea.
Per Emmanuel Macron, il cui programma è incentrato soprattutto su un taglio senza precedenti alla spesa pubblica e sull’abolizione della tassa sulla casa per l’80% di quelli che ora la pagano, oltre che su un nuovo progetto europeo, il rischio c’è. Ma c’è anche il modo di superarlo. Come? Innanzitutto, sfruttando l’onda lunga di un’eventuale successo al secondo turno, che potrebbe anche essere trionfale stando alle sensazioni. Il fatto che un candidato europeista, in un momento di forti tendenze sovraniste (Francia inclusa), abbia superato la favorita Le Pen fa sì pensare a un voto che forse è più anti-Le Pen che altro, ma anche al fatto che non ci sarebbe nessun motivo per non confermarlo nelle elezioni politiche di giugno. La strada al populismo era spianata già domenica, eppure non ha sfondato.
Poi, c’è la possibilità di fare alleanze: è chiaro che Macron da solo non avrà mai la maggioranza assoluta in Parlamento, ma col Partito socialista ha già lavorato come ministro nell’ultimo governo, mentre la destra facilmente gli strizzerà l’occhio vista la sua matrice liberale, soprattutto sulle questioni del lavoro e delle politiche sociali. Macron propone infatti di non toccare le pensioni (Fillon voleva persino alzare l’età pensionabile a 65 anni, dai 62 attuali) ed è favorevole alla conferma della discussa Loi Travail, il Jobs Act alla francese. Proprio per questo resta il dubbio di poter contare anche sui seggi che riuscirà eventualmente a portarsi a casa Mélenchon, che invece le pensioni vorrebbe abbassarle a 60 anni e aumentare il salario minimo (Smic) dagli attuali 1.150 euro circa netti a 1.300, tassando al 90% i redditi pari a 400mila euro annui. Ma è presto per fare questi calcoli. E comunque, in Francia come in altri sistemi presidenziali o semi-presidenziali, è prevista la cosiddetta “cohabitation”: non avere una maggioranza nitida alle Camere potrebbe far faticare Macron più del dovuto su alcune riforme, un po’ come è accaduto al governo Renzi col patto del Nazareno, ma di certo non metterebbe in discussione il suo mandato. Un mandato che sarà deciso il 7 maggio e che segnerà, in un modo o nell’altro, il futuro dell’Europa.