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Macchiati: la trappola della liquidità e il nodo del debito

L’abbondante offerta di moneta non si riversa sulla domanda di beni e servizi e il rendimento dei titoli di Stato è talmente basso che sembra consigliare di tenere i soldi liquidi anzichè prendere rischi di mercato mentre un’ulteriore riduzione dei tassi non fa certamente bene ai conti delle banche – Per irrobustire la crescita è tempo di aggredire il debito pubblico.

Macchiati: la trappola della liquidità e il nodo del debito

Ma siamo proprio sicuri che ci voglia un’altra riduzione dei tassi d’interesse? Draghi lunedì ha affermato che non esiterà ad utilizzare tutti gli strumenti a sua disposizione per perseguire l’obiettivo di riportare l’inflazione al 2 per cento.  E gli analisti prevedono che vi sarà un’ulteriore riduzione dei tassi: secondo quanto riportato dal Wall Street Journal gli investitori considerano che la Bce ridurrà i tassi tra lo 0,2 e lo 0,5 con una probabilità dell’86%.

Tassi persistentemente bassi e in ulteriore riduzione non sono certamente benefici per i conti economici delle banche, su cui il sentimento di mercato non è già favorevole per una crescita inferiore alle attese e per il timore che i nuovi requisiti di capitale richiedano versamenti da parte degli azionisti. Certo, Draghi ha ragione quando afferma  che il miglior modo per sostenere la profittabilità delle banche è “rendere sicuro che l’economia nel suo insieme ritorni ad uno  sviluppo sostenibile, con prezzi stabili”. Solo che per ora allo sviluppo non ci si è ancora tornati ….e le prospettive per i prossimi 12-18 mesi non sembrano rosee.

Nello stesso tempo permane il dubbio che ci si trovi in una trappola della liquidità: gli aumenti dell’offerta di moneta non si riversano sulla domanda di beni e servizi: il rendimento dei titoli è talmente basso che è meglio tenere i soldi liquidi che prendersi rischi di mercato. Né si può escludere che se detenere liquidità presso la Bce diventa un costo “non transitorio” una ulteriore riduzione del tasso Bce produca un aumento – o comunque nessuna riduzione – del tasso sui prestiti alla clientela. E l’effetto della politica monetaria espansiva sull’inflazione è stato nullo: continua a non muoversi. Anzi, per un quantitativista ortodosso, se l’aumento della domanda di moneta è più che proporzionale dell’aumento dell’offerta, i prezzi scenderanno. E più i tassi sui titoli sono bassi più i prezzi devono scendere o (per un quantitativista un po’ meno ortodosso) è molto improbabile che salgano. E il fatto che la curva dei tassi premi assai poco il lungo termine lascia intendere che non ci si aspetta una ripresa dell’inflazione. Per modificare le aspettative d’inflazione il tassi nominali si dovrebbero alzare, predicherebbe il nostro quantitativista ortodosso: gli investitori comincerebbero ad investire in titoli e la liquidità si ridurrebbe. Questa pure è una ricetta che però presenta controindicazioni: un aumento dei tassi produrrebbe perdite sul portafoglio titoli delle banche e gli operatori di borsa – che in questi mesi sguazzano nella liquidità – non sarebbero tanto contenti…

Non bisogna essere keynesiani per dire che ci vuole la politica fiscale. Ma questa è appesantita dal debito e ingabbiata dal fiscal compact. Governi europei con coraggio e visione metterebbero da parte l’ossessione degli avanzi primari e inizierebbero a discutere di ristrutturazione del debito pubblico, su cui ci sono già alcune proposte degli economisti. Ma, come diceva il Manzoni, il coraggio (e, si può aggiungere, anche la visione),  se uno non ce l’ha, non se lo può dare.

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