In un’intervista al Corriere della Sera di sabato i Cinque Stelle sembravano improvvisamente colti da un raggio di ragionevolezza politica. Pur precisando di parlare “a titolo personale” il loro capogruppo al Senato, Stefano Patuanelli, già ministro dello Sviluppo economico e poi dell’Agricoltura, dichiarava apertamente che “è necessario reintrodurre il finanziamento pubblico ai partiti”. Una posizione innovativa e sorprendente per una forza politica che è stata tra le protagoniste dell’abolizione del finanziamento pubblico realizzato nel 2013 dal Governo Letta su pressione dell’allora segretario del Pd, Matteo Renzi. Accarezzare il populismo nella speranza di fermarlo non è mai stata una buona scelta e così fu anche dieci anni fa. Tangentopoli prima e il referendum Segni avevano spinto all’abolizione dei soldi pubblici ai partiti ma nessuno aveva mai risposto a una domanda elementare: la politica costa o no e, se manca il finanziamento pubblico, chi la paga? Dobbiamo rassegnarci a considerarla una riserva di caccia dei ricchi? E il fatto che la famiglia Berlusconi si accolli 90 milioni di debito di Forza Italia insegna qualcosa o no?
L’improvvisa apertura di Patuanelli lasciava sperare che un tabù dei Cinque Stelle stesse per cadere e l’ex Presidente della Camera, Pierferdinando Casini, si era affrettato a sostenere che “le parole di Patuanelli sono una prova di maturità dei Cinque Stelle”. Peccato che sia durata solo lo spazio di un mattino. Perché le parole del capogruppo grillino hanno fatto scoppiare la rivolta tra i parlamentari dei Cinque Stelle e ieri l’inossidabile Giuseppe Conte si è subito incaricato di smentire Patuanelli ribadendo, senza mezzi termini, che “la posizione del M5S è sempre stata e resta contraria al finanziamento pubblico dei partiti”. Fine della partita e Cinque Stelle giù dalla torre.