Diciamo le cose come stanno: la lotta alla casta dei Cinque Stelle non è mai stata una cosa seria ma solo un astuto espediente per accarezzare il populismo e raccogliere voti e consensi politici. Questo non vuol dire che non abbia fatto danni: basta a pensare al taglio del numero dei parlamentari senza nessuna differenziazione tra il ruolo della Camera e quello del Senato o all’introduzione in chiave assistenziale del Reddito di cittadinanza che pretendeva di abolire per legge la povertà salvo copiare il REI fortemente voluto dai Governi Renzi e Gentiloni e che ha clamorosamente fallito nella creazione di nuovi posti di lavoro. Senza dimenticare la sfiducia parlamentare con cui i Cinque Stelle hanno fatto cadere il Governo Draghi e aperto la strada al trionfo elettorale della destra di Giorgia Meloni.
Ma se negli anni d’oro del grillismo la lotta alla casta era risibile, oggi – nel M5S a guida Conte – diventa umoristica. Come altrimenti interpretare il via libera dei Cinque Stelle insieme al centrodestra – ma non al Pd, a Italia Viva-Azione e Verdi-Sinistra (che si sono astenuti) – all’aumento di 1.300 euro mensili (16 mila euro netti in più all’anno) degli stipendi dei capigruppo della Camera? Sapendo di averla fatta grossa e avendo una coda di paglia grande come una casa, i Cinque Stelle si sono poi arrampicati sugli specchi spiegando che in realtà l’aumento non costerà ai cittadini perché detratto dai fondi dei gruppi parlamentari e che loro, in ogni caso, non lo incasseranno. La politica, si sa, è spesso piena di bizantinismi ma una domanda è lecita: se i Cinque Stelle si vergognano ad incassare gli aumenti di stipendio per i capigruppo della Camera, perché li hanno votati ? Giù dalla torre senza alcun dubbio.