Sempre più poveri, è il grido che accompagna le proteste populiste in giro per il pianeta. Sempre più ricchi, è la realtà che emerge dall’irresistibile marcia del lusso, capace di resistere con successo a pandemie, guerre e rialzi dei tassi. È il verdetto che emerge, solo in parte a sorpresa, dai mercati azionari. Ma il lusso Made in Italy ha le sue carte da giocare e sogna il grande rientro a Piazza Affari. Mettiamo a confronto il più solido dei titoli dell’economia digitale, cioè Apple, con l’ammiraglia delle griffe, Lvmh. La Mela, così come gli altri big del settore, esce da un anno difficile in cui ha perduto mille miliardi di valore a Wall Street, ove oggi capitalizza comunque 18 volte gli utili. Colpa dei minori acquisti, ancor più dei problemi della Cina, il suo primo mercato sia per la produzione di iPhone che per le vendite.
Lusso il grande vincitore dei mercati: Lvmh, Hermès, Kering hanno multipli record
Nello stesso periodo Lvmh, l’impero dei 70 e più marchi di Bernard Arnault, l’uomo più ricco del mondo, ha scalato la vetta degli indici europei. Oggi, ultimato lo sbarco in Tiffany, il gruppo sfiora i 300 miliardi di euro di valore. I mercati gli riconoscono un rapporto prezzo/utili attorno alle 29 volte, in linea con gli altri colossi parigini, da Hermès a Kering. Per non parlare di altre icone dell’hard luxury, vedi Richemont.
Una bolla? No, per almeno due ragioni. La prima è che il lusso non esce da anni facili. Anzi. Negli ultimi anni il sistema ha sconfitto i gilets jaunes che pure volevano trasformare gli Champs Elysées nella loro Bastiglia. Così come la chiusura per pandemia delle metropoli cinesi, le principali clienti delle griffes. Per non parlare del blocco dei flussi turistici dall’Asia verso l’Europa e tutte le altre calamità a partire dalla guerra che ha svuotato via Montenapoleone dal flusso di fate in arrivo da Mosca. Incuranti degli ostacoli, i titoli del lusso hanno continuato a resistere alle tempeste. Oggi, i giganti del lusso si apprestano ad incassare i frutti della riapertura di Pechino e Shanghai, nonché del ritorno per l’anno del coniglio (inizio 22 gennaio) dei compratori cinesi in Europa.
Non c’è settore che sfugga agli appetiti dei Big del lusso
La stagione della ripresa coincide con i profondi cambiamenti che hanno investito il settore in questi anni complessi ma formidabili, in cui è cresciuta a livello planetario la tribù dei ricchi assieme a quella che aspira a diveltarlo. Il concetto di lusso non è più limitato entro i confini tradizionali ma ha contagiato buona parte del manufacturing, dall’auto all’alimentare, ed ancor più il mondo dei servizi: ristorazione, alberghi, viaggi, gestione del tempo libero. Non c’è settore che sfugga agli appetiti dei Big del lusso: l’appartenenza al club del lusso, insegna Ferrari, è ormai il requisito base per poter contare su multipli eccellenti. Grazie alla fame per lo shopping che accomuna ad ogni latitudine i ricchi vecchi e nuovi.
Di qui la spinta alla trasformazione dei Big, da semplici case di moda ad aziende sempre più complesse, attive in tutte le attività in cui un brand aumenta il valore, che si tratti di uno champagne piuttosto che di una cravatta. Anche così si spiegano i movimenti all’interno del settore: i gruppi francesi, dopo aver fatto collezione di marchi, stanno trasferendo la gestione della creatività ai dirigenti più bravi, ma concentrando le leve del potere ai piani più alti, nelle mani di un capitalismo a forte impronta familiare, come dimostrano Arnault/Lvmh, Pinault/Kering per non parlare della tribù Hermès. Il caso vuole (ma non è un caso) che in questa selezione primeggino le donne e gli uomini del made in Italy, frutto di una straordinaria selezione del gusto che discende dal rinascimento o anche più in là. Merita così celebrare i successi di Pietro Beccari, oggi alla guida di Lvmh dopo aver moltiplicato per tre le vendite di Dior in quattro anni o degli altri assi, da Alessandro Michele a Grazia Chiuri e Francesca Bellettini.
Da Prada a Zegna, Milano sogna il grande rientro a Piazza Affari
Che ruolo può recitare l’Italia con le sue aziende del lusso e Piazza Affari in particolare in questa situazione? Limitarsi a fare da vivaio per le squadre francesi, sfornando talenti di vario tipo per i marchi più prestigiosi? O c’è uno spazio anche per il Made in Italy di successo? A ben vedere molte cose di stanno muovendo anche nel Bel Paese in più direzioni. Al punto che non è azzardato pensare ad un anno di svolta.
1) Non è escluso che continui nel 2023 il consolidamento del settore attraverso l’attività di M&A. Tra i nomi più gettonati Salvatore Ferragamo che potrebbe sfruttare il ritrovato smalto dello shopping asiatico. Occhio anche a Tod’s, dopo il fallito delisting. La destinazione naturale del gruppo è nell’impero Lvmh.
2) Accanto alle vendite, però, prende corpo l’idea di un salto di qualità: non più semplici griffe, ma società più complesse sul modello dei Big francesi. Si potrebbe spiegare così l’ingresso di Andrea Guerra nel gruppo Prada. Oltre a far da tutor a Bertelli junior, il manager potrebbe favorire la crescita di un gruppo multibrand, come lo stesso Bertelli già tentò ad inizio millennio. In questo senso potrebbe esser interpretata la nomina di Gianfranco D’Attis, quale ceo del marchio Prada. Potrebbe essere il primo passo per un disegno più ampio, il traguardo fallito a suo tempo da Hdp.
3) In questa chiave, del resto, si sta muovendo anche Zegna, alleata di Prada nello shopping di aziende di qualità, un tesoro che rischia di disperdersi. Zegna, oggi quotata a Wall Street grazie ad una Spac promossa da Carlo Bonomi, potrebbe scegliere la strada del dual listing, aiutando la ripresa di Piazza Affari, Borsa in grave declino ma che potrebbe intercettare l’interesse del mercato. Così come Prada, quotata ad Hong Kong. O Renzo Rosso che allarga i suoi interessi anche al vino. Masi Agricola, la società che produce e distribuisce l’Amarone ed altri vini di pregio delle Venezie, è saldamente controllata dalla famiglia Boscaini che guida l’attività fin dalla fondazione dell’azienda nel 1772. La quota è pari al 73,5% del capitale. Renzo Rosso, il fondatore di Diesel, ha investito nell’azienda e detiene una partecipazione del 10%. Senza trascurare Remo Ruffini di Moncler, partner di Stone Island che pure nega (così come Diego Della Valle) che ci sia spazio per far concorrenza ai grandi di Francia, che hanno ormai vinto la sfida globale.
4) Ma l’Italia può fare la sua parte in questa partita globale “perché le praterie del lusso sono davvero infinite” sottolinea David Pambianco. “C’è spazio anche per noi – dice – nello sport luxury legato ai gusti di Millennials e Gen Z. È qui che i gruppi italiani possono trovare terreno fertile per diventare grandi”.
Purché anche la finanza sappia pensare in grande. Assieme al recupero di Essilor Luxottica, il solo ingresso di Prada e Zegna potrebbe assicurare un grande salto di qualità al mercato quale vetrina del lusso italiano. In attesa che, complice Exor, trovi spazio il vero gioiello: l’impero Armani. Difficile, ma sognare è lecito.