E dire che qualche anno fa, François-Henri Pinault, classe 1962, alla guida di Ppr, colosso del lusso francese (e numero tre mondiale), venne scambiato dall’inserviente di un grande albergo di New York per l’attore Daniel Craig, ormai mitico interprete degli 007. A Pinault (biondo, occhi azzurri, fisico da sportivo) venne addirittura chiesto un autografo. Ebbene, ora Ppr sarebbe in lizza per rilevare il marchio romano Brioni. Che ha vestito James Bond per almeno cinque film.
Diciamo, innanzitutto, che doveva succedere. François-Henri sta riorientando da tempo il business del suo gruppo. Si sta liberando dei suoi asset nel settore della distribuzione (che comunque l’anno scorso rappresentavano ancora il 60% del fatturato di Ppr). L’ultima cessione è stata quella di Conforama, nel marzo scorso, che ha reso 1,2 miliardi. Seguiranno (ma non prima dell’autunno) le vendite di Redcats (che controlla La Redoute) e quella di Fnac (tendenzialmente a fine 2012). Con la liquidità così ottenuta Pinault ha due obiettivi. Da una parte vuole ridurre l’indebitamento del suo gruppo, da tempo un tallone di Achille per Ppr, critica costante nei report degli analisti. Dall’altra Pinault vuole investire in marchi del lusso e del lifestyle, dove già è presente con società quali l’italiana Gucci e la tedesca Puma.
Ora, se qualcuno vuole investire nel lusso e nel lifestyle, per di più puntando “a marchi di dimensioni medie, se non addirittura modeste” (sono le parole di François-Henri) è inevitabile che prima o poi calpesti il suolo italiano. Da tempo i suoi seguci erano a caccia di “prede” nel nostro Paese. Bulgari? No, troppo grande. E in effetti lo ha fagocitato Lvmh, il numero uno del lusso mondiale. E ancora un gruppo francese, di Bernard Arnault, l’eterno nemico di Ppr. Brioni, invece, ci può stare. Ma se il business si concluderà positivamente, cosa devono aspettarsi nella casa romana?
A Parigi, per capire i Pinault, non si può non fare il confronto con gli Arnault. François, il padre di François-Henri, uno che ha iniziato quasi dal nulla (commerciante di legname nella Bretagna profonda) si è ritrovato spesso in concorrenza con Bernard Arnault, un altro che ha avuto l’abilità di creare un colosso, ma che era già nato alquanto ricco. Nel 2005 François ebbe l’intelligenza (e il coraggio) di passare le redini al figlio, nel frattempo diplomato a Hec, la grande école francese di business, dove si entra grazie alle proprie capacità e non perché sei figlio di Pinault. Arnault, l’accentratore, invece, è rimasto in sella ai vertici di Lvmh, coinvolgendo solo in parte i figli, che di Hec non hanno visto neanche l’ombra.
L’arrivo sulla ribalta di François-Henri venne altamente criticato nei giri della Parigi che conta. Si diceva che non avesse la verve e l’aggressività del padre. Che fosse troppo riservato, troppo timido. Anche troppo poco amico di Nicolas Sarkozy (i Pinault sono rimasti fedeli a Jacques Chirac), mentre Arnault era subito saltato sul carro del nuovo Presidente. Anche la volontà di puntare sul lusso e sul lifestyle, portatori di utili maggiori rispetto alla distribuzione, non è stata inizialmente capita.
In parallelo il “giovane” Pinault si è creato l’immagine del manager moderno, con una passione per l’ambiente e lo sviluppo sostenibile (al quale è consacrata una quota fissa dei dividendi). Nel Cda del suo gruppo, dei 12 consiglieri quattro sono donne: anche in questo il nostro è diverso da un Arnault o da un Bolloré qualunque.
Altra sua particolarità (interpretata talvolta come segnale di debolezza): lasciare spazi ai manager delle società che compra e alle loro particolarità nazionali. I Pinault lo hanno fatto con Gucci e hanno avuto ragione. O con Bottega Veneta, che è passata da un fatturato di 35 milioni di euro nel 2001 a 511 l’anno scorso. Niente omologazione (tutti prodotti uguali, tutte boutique uguali) in puro stile Arnault, alla ricerca estrema delle sinergie. Lo stile di François-Henri è altro.