Salvo imprevisti impazzimenti che talvolta la disperazione politica può provocare, è molto improbabile che il tracollo elettorale subito in Umbria dall’improvvisata alleanza tra i Cinque Stelle e il Pd porti alla crisi del Governo Conte 2. Ma questo non significa che non avrà alcun effetto politico, anche se tra gli sconfitti c’è chi cerca di consolarsi ricordando che gli abitanti dell’Umbria sono pari a quelli di una piccola città come Lecce o di un quartiere romano. Le dimensioni della popolazione non sono tutto e avviene anche negli Stati Uniti che il voto del piccolo Stato dell’Ohio sia quello che fa la differenza e che può determinare l’elezione del Presidente americano.
Ci sono però due o tre punti che dopo il voto umbro meritano di essere messi a fuoco. Il primo è che non sarà il risultato delle elezioni regionali umbre a mettere in crisi l’asse Pd-Cinque Stelle ma esattamente il contrario e cioè che il deludente esito del voto non è la causa ma l’effetto della debolezza e dell’inconsistenza della frettolosa alleanza tra il partito di Nicola Zingaretti e quello di Luigi Di Maio.
Se l’alleanza di governo tra Cinque Stelle e Pd, propiziata quest’estate da Matteo Renzi e da Beppe Grillo e poi fatta propria senza troppa convinzione da Zingaretti e da Di Maio, ha una sua logica e l’obiettivo chiarissimo di non consegnare l’Italia al sovranismo di Matteo Salvini e di non portare il Paese fuori dall’Europa attraverso elezioni anticipate, l’idea di allargare un’alleanza d’emergenza al livello regionale e di trasformarla da tattica e contingente in strutturale fino ad immaginare addirittura una casa comune, come va ripetendo il ministro dem Dario Franceschini, è a dir poco un azzardo. E la dimostrazione sta nella totale assenza di una visione comune, di un progetto comune, di una cultura politica comune alla base di un’ipotetica alleanza stabile e strutturale che oggi non ha un’anima e che, proprio per questo, non può suscitare passione e consenso. Ma che, al contrario, assomiglia molto da vicino a un puro accordo di potere.
Se c’è una lezione che il voto umbro dovrebbe suggerire a chi ha perso non è quella di mandare all’aria la legislatura e di sfasciare sul nascere un governo che ha solo due mesi di vita ma quella di non cullare disegni illusori e frettolosi che nascono nel Pd e nei Cinque Stelle soltanto dalla paura di Matteo Salvini e di Matteo Renzi e dalla speranza di dar vita, attraverso una fusione fredda dei due partiti, a un bipolarismo che allo stato appare molto aleatorio. Ed è un peccato che anche un politico innovativo ma un po’ troppo narciso come l’ex ministro Carlo Calenda non riesca a cogliere le differenze tra un’alleanza d’emergenza e un’alleanza strutturale.
Sarebbe forse più saggio prendere atto che la politica, come la natura, non può fare salti e che il massimo che questa fase politica può garantire è un governo d’emergenza e di transizione che eviti al Paese nuovi traumi, non faccia danni ai cittadini e dia alle forze politiche il tempo necessario per pensare a quel che verrà dopo l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Troppo poco? No, piuttosto una manifestazione di realismo, nella consapevolezza che correre troppo senza avere il fiato sufficiente e senza avere le idee chiare può solo provocare sbandamenti e delusioni. Come il voto umbro puntualmente ricorda.