“Maresciallo, sarà soddisfatto, siete arrivati a Berlino”, diceva a Josef Stalin l’ambasciatore americano a Mosca, Averell Harriman, nel luglio 1945, alla vigilia della Conferenza alleata di Potsdam. “Alessandro I arrivò a Parigi”, rispondeva il dittatore sovietico ricordando la fine di Napoleone Bonaparte, 130 anni prima, e il potere russo di allora.
Il caso dell’Ucraina è l’ultimo episodio di un lungo dramma, quello dei rapporti fra Russia ed Europa, che 77 anni fa giungeva a una svolta, con l’Est europeo presto sovietizzato. Dopo 44 anni, nel 1989, svoltava ancora, con la Russia sovietica in umiliante ritirata. Oggi, come già nel 2014 con la Crimea, il presidente russo Vladimir Putin vuole ristabilire equilibri più vantaggiosi, e riavvicinarsi a quelli post ’45 e pre ’89. Mosca lo ripete e lo fa ancora in queste ore: non c’è solo l’Ucraina sul tavolo.
Ucraina: “La Ue non conta nulla”
In quest’ultima scena del grande dramma, che ha Putin e il presidente americano Joseph Biden protagonisti assoluti, gli europei come sempre da tre generazioni stentano a ritagliarsi un ruolo. “La Ue non conta nulla” ha ancora detto poco tempo fa Sergey Lavrov, capo della diplomazia russa, riecheggiando il “quante divisioni ha il Papa?” detto da Stalin una prima volta al premier francese Pierre Laval nel 1935 e ripetuto poi in seguito. Eppure de re nostra agitur, si tratta di noi, ancora dopo tanti anni affidati a una Nato che sembrava senile e a cui Putin ha restituito ragion d’essere, ma che resta una alleanza credibile solo se a guida americana.
I canoni occidentali per capire la Russia sono ancora oggi, e anche nell’attuale caso ucraino, quelli fissati nel “lungo telegramma” con cui il numero due dell’ambasciata a Mosca, George F. Kennan, cercava di spiegare nel febbraio del ’46 a una Washington perplessa la mente russo/sovietica. Il primo punto non esiste più, o non dovrebbe più esistere, perché era legato al comunismo di cui Mosca si faceva chiesa unica e madre, al concetto primigenio di un capitalismo senescente e guerrafondaio e quindi all’impossibilità di una coesistenza pacifica di lungo periodo. Veniva poi diceva Kennan una “visione neurotica della scena internazionale” dovuta a un “istintivo senso russo di insicurezza”. Legati al millenarismo comunista, questi due stati d’animo spingevano verso l’idea di “una paziente ma mortale lotta per la distruzione totale del potere rivale”, cioè Washington. Questa “pazienza”, crollata la dottrina lenin/stalinista, non dovrebbe più esistere, ma ha lasciato traccia, perché era non solo sovietica ma anche russa.
Restano invece pienamente validi, nel senso di ipotesi di lavoro, due altri punti: la difficoltà di convincere i russi con “le logiche della ragione” ma, insieme, la loro notevole sensibilità alle “logiche della forza”, che li avrebbe spinti sempre a fermarsi di fronte a una “resistenza determinata”.
Non c’è solo l’Ucraina sul tavolo
Kennan diventava subito il massimo teorico del containment, il concetto fondamentale della Guerra Fredda intesa come barriera di un espansionismo sovietico che camminava sulle gambe della dottrina comunista. Kennan però non condivideva tutte le applicazioni del suo containment e sarà poi allontanato dal servizio diplomatico nei primi anni 50. Kennan, morto nel 2005, era contrario all’allargamento a Est della Nato dopo la fine dell’Urss, a partire dalla Polonia nel 1999, proprio perché troppo umiliante per i russi.
Personalità affascinante ma complessa, Kennan, secondo il suo ex superiore a Mosca nel 45-46, l’ambasciatore Harriman, “capiva la Russia ma non capiva gli Stati Uniti”.
La fine dell’Urss lasciava in ultimo la sola Bielorussia, di tutto il vasto sistema di stati-cuscinetto che la Russia aveva avuto sul suo fronte Ovest a partire dal ‘700 e poi ricostruito con colpi di Stato, polizia politica e Armata Rossa dopo il 1945. Puntualmente, all’inizio dell’attuale crisi ucraina, nel dicembre scorso, Putin confermava che non solo di Ucraina si tratta e chiedeva come base di dialogo, andando al sodo, due cose impossibili, la seconda soprattutto: smentire che l’Ucraina sarebbe entrata un giorno nella Nato, e impegnarsi a non avere mai reparti Nato pronti all’azione e armi pesanti dell’Alleanza in tutti i Paesi entrati nella Nato dopo il maggio del 1997, cioè in tutti i paesi dell’ex sistema sovietico europeo, tutti entrati nell’Alleanza occidentale, comprese le tre repubbliche ex sovietiche del Baltico. Non certo una base di trattativa, ma un autoritratto della psiche russa.
Il fatto è che tutti i Paesi dell’Est europeo ex sovietico e ancor più Lituania, Lettonia ed Estonia hanno premuto per entrare nella Nato perché essere vicini del gigante russo non è facile. Armatissima, ricca di materie prime, povera di tutto il resto: questo un ritratto caustico e forse eccessivo, ma per nulla sbagliato della Russia, un Paese gigantesco che aveva trovato nel messianismo comunismo quel soft power capace di lanciare la sua immagine nel mondo. Chi aveva informazioni buone e chiarezza di pensiero non ci ha mai creduto a una Russia magistra vitae, e questo già nel primo decennio, grossomodo, dopo il 1917.
La Russia ha lo stesso Pil della Spagna, assai inferiore quindi a quello dell’Italia, una spesa militare enorme rispetto a quella spagnola o italiana, e circa tre volte di più di popolazione della Spagna, su cui quell’identico Pil va ogni anno spalmato. Essere vicini alla Russia e legati al suo sistema non è una scorciatoia verso il benessere, ma verso l’indigenza della gente comune. La Russia non ha soft power, il potere delle idee, degli stili di vita, dei fin troppi beni di consumo dell’Occidente, e non ne ha mai avuto, pur essendo culturalmente una grande nazione. Ma solo in parte europea.
Una guerra economica in Europa
Nessuno, neppure in queste ore, sa davvero come andrà a finire fra Mosca e Kiev e se Mosca attaccherà davvero, cosa sempre possibile, ma non certa. È certo che l’Ovest cercherà di far pagare un duro prezzo agli attaccanti russi, ma senza mandare un solo uomo a combattere per un Paese non alleato, e che vorrebbe esserlo. Si risponderà con l’economia, la finanza, e altro. Uno stato di guerra economica sul continente europeo, con costi alti per tutti.
C’è un’altra via, su cui i Paesi Ue e non solo cercano di spingere, e che implica alcune sgradevoli concessioni a Putin obbligandolo però a farne altrettante e ancor più, nel lungo periodo. Si tratterebbe, in breve, di preparare un remake del lungo lavoro che portò nel 1975 all’Atto Finale di Helsinki, chiudendo allora le ambiguità lasciate dagli anni 1945-1948, riconoscendo per la prima volta a Mosca l’ambito titolo di superpotenza. Una riscrittura, alla fine, delle regole di convivenza, in Europa, tra le “piccole” nazioni a ovest e il gigante dell’est. E una rivisitazione dei molti accordi bilaterali sul controllo degli armamenti venuti dopo Helsinki, i vari tipi di missile soprattutto, ormai quasi tutti ampiamente disattesi da Mosca o rinnegati da Donald Trump. È possibile? Su Foreign Affairs l’ex ambasciatore americano a Mosca Michael McFaul traccia ora un percorso possibile, che deve tuttavia inghiottire il rospo di una concessione iniziale fatta a Putin sotto la pressione delle armi.
In questo quadro non va dimenticata una costante: che per Mosca la presenza di uomini e missili, americani in Europa, a 6 mila chilometri dalle loro coste orientali, è un controsenso. Roosevelt si era impegnato a ritirare le truppe americane dall’Europa. La Nato è per loro un controsenso. E così la Ue, che accomunano alla Nato, non del tutto a torto dal loro punto di vista, con qualche aiutino dai sovranisti nostrani, ingenuo a dir poco.
La loro Europa resta quella di Alessandro I. Ma anche nonostante questo si possono raggiungere accordi diplomatici buoni, per qualche tempo. Senza dimenticare che Mosca ha due armi e non altre: l’Armata un tempo Rossa e le materie prime, gas oggi la più efficace. E prima o poi tornerà ad usarle, “impervious to logic of reason” come scriveva Kennan, “highly sensitive” però “to logic of force”. Se la Ue si sveglia, in particolare se la Germania accetta la sfida nonostante il peso della sua storia, essendo illogico contare in eterno sull’ombrello americano.