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Luce e gas, ecco chi gonfia i prezzi: non solo “Oneri impropri”

FIRSTonline

Tutti intorno al capezzale delle bollette. Spaventano i rincari di elettricità e gas, si spera congiunturali, determinati dall’impennata dei costi delle materie prime. Si moltiplicano le promesse di rendere strutturali le misure attivate dal Governo per decongestionare i prezzi sterilizzando le voci “accessorie” che contribuiscono a gonfiare i prezzi. Ma è davvero tutta colpa delle tensioni sulle materie prime (petrolio e soprattutto gas)? E perché la nostra corsa alle rinnovabili, che potrebbe essere più svelta ma è comunque consistente (quasi la metà dell’energia elettrica che consumiamo è prodotta con fonti “verdi”) non ci mette al riparo dalle quotazioni internazionali di idrocarburi? I problemi, e le risposte che tutti si attendono, riguardano questioni più complesse ma cruciali per affrontare la transizione energetica. C’è il problema, stranoto, degli oneri più o meno impropri appioppati alle nostre bollette, ma c’è anche il problema delle regole di funzionamento del nostro mercato dell’energia. Si aggiungono questioni che sembrano accessorie ma che hanno un peso significativo. Tra queste il mancato sfruttamento delle nostre riserve di idrocarburi, che in una fase di transizione possono decongestionare il problema.

DOPPIA MANOVRA CERCASI

La diagnosi corrente è un po’ parziale: le nostre bollette sono ingabbiate in un pesante ingorgo di voci, oneri, addizionali e tasse che produce due effetti perversi. Gonfia il costo totale e, ancor peggio, rende difficile trasferire sui clienti finali gli attesissimi effetti della liberalizzazione e della concorrenza tra operatori, visto che i costi difficili da comprimere sono preponderanti e lasciano pochi margini ad offerte di prezzo davvero diverse tra loro. Meno del 40% in media della nostra bolletta si riferisce ai costi della materia prima che serve per produrre l’energia che ci viene venduta, mentre le spese di gestione rappresentano una quota ridotta. Il resto riguarda un mare dilagante di voci accessorie (come il trasporto e la distribuzione, con parametri peraltro governati dall’Autorità per l’energia) ma anche di sussidi che aumentano nel tempo, come gli incentivi per promuovere le energie rinnovabili e il trascinamento dei costi per la dismissione delle nostre vecchie centrali nucleari. E non mancano, direttamente in bolletta, i costi di finanziamento di molte delle misure sull’efficienza energetica, oltre al bonus sociale che pesa sulla stragrande maggioranza dei consumatori a vantaggio di chi è bisognoso.

Stendiamo un velo pietoso sulle addizionali improprie come quella, ormai al tramonto per esplicita azione della Ue, con la quale era stato inserito nella bolletta elettrica addirittura il canone della televisione.

Pulire, decontaminare, fiscalizzare (cioè scorporare e trasformarle in imposte di altro genere) le tante voci che con l’energia che consumiamo c’entrano poco o nulla: è la promessa dei governi passati e naturalmente anche di questo. Intanto la bolletta è un ingorgo. Parla chiaro la “torta” delle due fatture di seguito riprodotte a titolo di esempio, che si riferiscono alla stessa utenza (luglio e novembre 2021) con un contratto da 6 kW di potenza di picco ma consumi globali ridotti tipici di una seconda casa.

MECCANISMI DA RIVEDERE

Ma i problemi, bisognosi di interventi, non si fermano qui. Come noto le nostre istituzioni non hanno ancora dato il via libera a ciò che sarebbe imposto dalle regole comunitarie sulla concorrenza, ovvero la fine dei contratti “di maggior tutela” eredità delle vecchie tariffe amministrate ante-liberalizzazione. Di anno in anno l’appuntamento viene puntualmente rinviato. Ora la nuova scadenza è fissata a gennaio 2023.

Troppe incognite, si dice, nell’obbligo di tutelare il consumatore finale dai possibili giochi sporchi di un mercato in odore di speculazione. Ma a ben guardare la speculazione si ritrova anche nell’attuale meccanismo di formazione dei prezzi. E si ritrova proprio al primo livello del gioco: la borsa elettrica. I suoi prezzi, che servono da riferimento a tutto il mercato dell’energia, si formano infatti con un meccanismo che in nome della salvaguardia dell’equilibrio tra domanda e offerta si affida al sistema del “system marginal price”. In pratica: ognuno fa la sua offerta, sia che riguardi l’energia prodotta da fonti fossili che quella da fonti rinnovabili. Si ricevono le offerte in Borsa, escono progressivamente quelle con il prezzo più alto e una volta fissato il prezzo massimo prodotto dalle transazioni anche tutti quelli che hanno offerto a meno si vedono riconosciuto il prezzo prodotto. Risultato: chi ha effettivamente costi marginali di produzione dell’energia più bassi, tipicamente quelli che fanno ricorso alle rinnovabili, viene premiato con un margine molto ricco.

Un meccanismo che, come spiega con lucida semplicità Carlo Stagnaro dell’Istituto Bruno Leoni, da una parte incentiva l’installazione di impianti a energie rinnovabili, che possono contare su una eccellente remunerazione, dall’altra ostacola il trasferimento di questi vantaggi di prezzo sulle bollette dei consumatori finali. Un meccanismo che merita una revisione, magari con una “liberalizzazione controllata” che faccia nascere una borsa elettrica realmente affidata al gioco della concorrenza, sebbene doverosamente sorvegliata e amministrata dalla nostra ottima authority (Arera).

LIBERTÀ ELETTRICA FRENATA

Ma se uno volesse produrre consumare in proprio l’energia di cui ha bisogno, in forma del tutto privata o magari consortile? Ecco un altro problema nel problema. Con lo sviluppo delle rinnovabili (soluzione d’elezione per i nuovi impianti, piccoli o grandi che siano) e il progresso delle relative tecnologie si sta sviluppando il dibattito sulle cosiddette comunità energetiche e sui vincoli e regole che le dovrebbero promuovere. La nostra authority ci crede molto, ben consapevole dei problemi che esistono nell’amalgamare i sistemi di produzione e consumo delle reti più o meno private con le reti pubbliche. Il Gse, il gestore pubblico dei sistemi energetici, ha inserito sul suo portale Web addirittura un simulatore per valutarne la convenienza. Ma l’operazione rimane piena di ostacoli e di insidie.

Sta di fatto che a tutt’oggi tutte le regole che riguardano incentivazione degli impianti di energie rinnovabili privati offrono ben poche alternative al sistema assai rigido che governa il cosiddetto “scambio sul posto” remunerando l’energia in eccesso immessa in rete. Rigido perché non consente in realtà ad un privato di consumare direttamente la propria energia, anche semplicemente per creare un sistema di riserva (backup) capace di alimentare singola abitazione se momentaneamente manca la fornitura. Ma le regole impongono ancora oggi una disconnessione immediata: si interrompe anche momentaneamente la fornitura pubblica e istantaneamente si disattiva anche l’impianto fotovoltaico di casa, comprese le sue connessoni interne e esterne, anche se dotato sistema di accumulo a batteria. Un bel problema, che merita attenzione e possibilmente una soluzione.

In nome delle agognate e promesse “comunità energetiche” la libertà di produrre e consumare in connessione con la rete pubblica è sperimentata localmente, ad esempio nell’area nord-est di Bologna grazie all’iniziativa coordinata dall’Enea, ma il “libera tutti” nazionale sembra ancora lontano. Qualcuno, delle nostre istituzioni, parla di pericolosi impatti determinati dalle nuove complessità del sistema. C’è invece chi crede che le tecnologie per risolvere i problemi siano disponibili e che valga assolutamente la pena promuovere queste soluzioni. “Il primo dei vantaggi – osserva Gianni Girotto, che tra gli uomini del Cinque Stelle è dotato di buona competenza tecnica e presiede la Commissione Industria del Senato – è quello economico, con un risparmio del 20-25% sulla bolletta. Inoltre c’è un beneficio a livello nazionale, dal momento che con la crescita delle comunità e dell’autoconsumo riusciamo a diminuire gli sbilanciamenti sulla rete, che ci costano molto”.

I GIACIMENTI DIMENTICATI

Si spera nelle nuove energie, nello sviluppo ulteriore delle rinnovabili ma anche nel nucleare di nuova generazione, quello che dovrebbe risolvere alla base il problema delle scorie grazie al meccanismo della fusione. Poche illusioni e moltissimi pudori, su questo fronte. È bastato il timido appello a proseguire nella ricerca lanciato dal nostro ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani per scatenare l’ennesimo putiferio. Ma è stato lo stesso Cingolani ad affermare che in questa fase di emergenza determinata dai picchi delle quotazioni internazionali di petrolio e gas vale la pena affrontare il problema atavico del mancato sfruttamento delle nostre riserve di idrocarburi, che potrebbero costituire un utilissimo cuscinetto in questa fase di transizione. Perché – si domanda Cingolani – non spingere intanto sui giacimenti già autorizzati, da aggiungere a quel poco che continuiamo ad estrarre? La risposta è sotto gli occhi di tutti: il no assoluto, alimentato da molta propaganda politica, a qualunque infrastruttura energetica, che in molti casi arriva fino alle pale eoliche e ai pannelli solari.

Un tesoro dimenticato? Proprio così: le stime dicono che sotto i mari italiani ci sono riserve ufficiali per oltre 90 miliardi di metri cubi di metano, a fronte dei nostri consumi annui che viaggiano attorno ai 70-75 miliardi di metri cubi. Ma nelle stime dei tecnici le quantità disponibili nel nostro sottosuolo, ma soprattutto sotto i nostri mari, sarebbero molto superiori. Sfruttabili peraltro ad un costo davvero basso: 5 centesimi di euro al metro cubo, a fronte dei normali prezzi di importazione che viaggiano tra i 50 e i 70 centesimi.  Ma in un paese dove ha avuto vita difficilissima persino un preziosissimo e ambientalmente innocuo gasdotto, il Tap che arriva dalla Grecia per sboccare in Puglia, dobbiamo farci poche (pochissime) illusioni.

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