La villa di Mann a Los Angeles, un simbolo
Nel 2016, poco dopo l’elezione di Trump, il governo tedesco ha acquistato, con l’idea di farne un centro culturale, la villa a Los Angeles nella quale aveva abitato, per un certo periodo, Thomas Mann durante l’esilio americano. La casa era stata costruita negli anni Quaranta su un progetto dello stesso scrittore. Stava per essere demolita perché la costruzione era valutata meno del terremo sul quale era edificata.
Secondo Alex Ross, critico musicale del “New Yorker”, la casa può essere considerata una sorta di patrimonio pubblico perché è legata a un momento tragico della storia americana, il maccartismo.
Lo scrittore di Morte a Venezia e La montagna incantata si stabilì a Los Angeles nel 1938, in fuga dal nazismo. Prese la cittadinanza americana e si spese molto per diffondere gli ideali americani.
Il maccartismo, un déjà vu
Nel 1952, però, si convinse che il maccartismo fosse un’anticipazione del fascismo e decise di emigrare di nuovo. Tornò nella Germania federale. Mann espresse un drastico e definitivo giudizio sul lavoro della Commissione per le attività antiamericane (House Un-American Activities Committee) presieduta dal senatore Joseph McCarthy.
Commentò:
«È così che è iniziato in Germania: intolleranza culturale, inquisizione politica, declino dello stato di diritto, tutto questo in nome di un presunto stato di emergenza.»
Mann non fu l’unico rifugiato mitteleuropeo ad aver percepito un intollerabile senso di déjà vu negli anni più bui del secondo dopoguerra dominati dal maccartismo. Gli intellettuali di origine ebraica del milieu intellettuale della scuola di pensiero conosciuta come la Scuola di Francoforte, che avevano trovato in America una patria adottiva, avevano suonato un allarme simile a quello di Mann.
Lo spartiacque della teoria critica
Nel 1923, un gruppo di giovani pensatori e intellettuali radicali di origine ebraica si dette appuntamento al 17 di Victoria Alle a Francoforte per fondare l’Istituto per le ricerche sociali (Institut für Sozialforschung) affiliato alla Goethe-Universität della città sul Meno. Inizialmente di tendenza marxista ortodossa, l’istituto prese un orientamento sociologico multidisciplinare del tutto nuovo quando, nel 1930, Max Horkheimer ne prese la direzione.
Tra gli esponenti della Scuola di Francoforte ci sono tra le migliori menti del Novecento. Filosofi come Walter Benjamin, Theodor Adorno, Max Horkheimer, Herbert Marcuse, Friedrich Pollock, Jürgen Habermas; piscoanalisti come Erich Fromm; storici come Leo Löwenthal e Karl Wittfogel; economisti come Franz Oppenheimer, Alfred Sohn-Rethel e Wolfgang Streeck. Solo per menzionarne alcuni.
Nel 1934 l’istituto si trasferì a New York, un trasferimento che mise in contatto gli esponenti della scuola con la realtà americana e che determinò anche uno spostamento decisivo del focus della teoria critica, il loro sistema di pensiero, dalla critica del capitalismo alla critica della società occidentale nel suo complesso di fondamenti e di valori.
La teoria critica, con libri come la Dialettica dell’Illuminismo (1947), avrebbero cambiato il modo di guardare e di interpretare il mondo. Avrebbe anche ridefinito i paradigmi di indagine di tutte le discipline sociali. Le vite di questi intellettuali di origine ebraica, come pure le loro idee, hanno profondamente, a volte tragicamente, riflesso e interpretato gli eventi sconvolgenti che si sono verificati nel secolo breve.
Gli studi sul “potenzialmente fascista”
Nel 1950, Max Horkheimer e Theodor Adorno contribuirono in modo importante a una ricerca, poi diventata un poderoso volume, dal titolo La personalità autoritaria. Questo lavoro mirava a costruire un profilo psicologico e sociologico dell’individuo “potenzialmente fascista”. L’indagine si basava su interviste condotte a cittadini americani che rispondevano a un questionario.
Il costante emergere di sentimenti razzisti, antidemocratici, paranoici e irrazionali che l’indagine mise in luce, iniziò a far riflettere il mondo sul possibile ripetersi di fenomeni come il nazismo. Una possibilità che anche un libro di Leo Lowenthal e Norbert Guterman del 1949, Prophets of deceit, A study of the techniques of the American agitator, contemplava. Lowenthal e Guterman indagarono la psicologia dei seguaci di padre Charles Coughlin e videro qualcosa di molto profondo e terrificante, cioè:
“La possibilità del verificarsi di una situazione in cui un gran numero di persone diviene esposta alla manipolazione psicologica.»
Adorno, da parte sua, riteneva che il pericolo maggiore per la democrazia americana fosse rappresentato dall’apparato culturale di massa che lui e Horkhemier chiamarono “industria culturale”. Il cinema, la radio, la televisione e, potremmo aggiungere oggi, il web.
Il ruolo ipnotico dell’industria culturale
Secondo i due pensatori tedeschi questo apparato opera come una simil dittatura anche nei paesi che non sono una dittatura: omologa, spinge verso il conformismo, silenzia il dissenso, condiziona e indirizza il pensiero, massifica l’individuo.
La Germania nazista sembrava allora rappresentare il caso estremo di un tardo capitalismo in cui l’individuo rinunciava alla propria libertà intellettuale e di opinione per consegnarsi a un apparato autoritario-protettivo. Analizzando i cinegiornali del tempo di guerra, Adorno concludeva che l’“industria culturale” stava replicando i metodi fascisti dell’ipnosi di massa. Soprattutto, vedeva svanire ogni confine tra realtà e finzione. Nel suo libro del 1951, Minima Moralia, scriveva:
«Nello scambio e nella confusione di verità e menzogna, che ormai quasi esclude che si possa mantenere e preservare la loro differenza, e che fa diventare un lavoro di Sisifo anche lo sforzo di tener ferma la conoscenza più elementare, si afferma, sul piano dell’organizzazione logica, la vittoria del principio che è stato disfatto sul piano strategico e militare. Le bugie hanno le gambe lunghe; si può dire che precorrano i tempi. La traduzione di tutti i problemi di verità in problemi di potere non si limita a reprimerla e soffocarla come nei regimi dispotici di una volta, ma ha investito nel suo nocciolo più intimo la disgiunzione logica del vero e del falso, che, del resto, i mercenari della nuova logica contribuiscono a liquidare. Così sopravvive Hitler, di cui nessuno può dire con certezza se sia morto o si sia salvato.» [T.W. Adorno in Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa (1951), Einaudi, Torino, nuova ed. 1979, pp. 113]
Oltre Brüning
Mann, che aveva consultato Adorno per il romanzo Doctor Faustus, stava leggendo proprio Minima Moralia mentre meditava di abbandonare l’America. Paragonava lo stile aforistico del libro a “un campo di forza gravitazionale potente” come quello di un corpo celeste supercompatto. Forse l’opera di Adorno ha influenzato davvero la decisione di Mann di lasciare gli Stati Uniti. Qualche mese dopo, proprio alla vigilia della partenza, Mann scrisse ad Adorno:
«Il modo in cui le cose si sono messe [in America] è già chiaro. Siamo già oltre Brüning.»
Heinrich Brüning fu l’ultimo cancelliere della Repubblica di Weimar a fare opposizione aperta al nazismo.
Declino e rinascita della Scuola di Francoforte
I timori di Mann, di Adorno e degli altri rifugiati politici, per fortuna, non si avverarono Il maccartismo passò, i diritti civili fecero un grande balzo in avanti, la libertà di parola non fu scalfita, la democrazia liberale si diffuse in tutto il mondo. Alle soglie del Duemila, la Scuola di Francoforte era vista in molti ambienti come un residuato bellico inesploso.
Negli ultimi anni, però, le azioni dei francofortesi sono tornate a salire fortemente. Come rileva Stuart Jeffries nel suo libro Grand Hotel Abyss: The Lives of the Frankfurt School (Penguin-Random House, 2016) la crisi del capitalismo globalizzato e della democrazia liberale ha fatto rinascere l’interesse per la teoria critica.
La combinazione di disuguaglianza economica e vacuità pop-culturale è proprio lo scenario che Adorno e altri francofortesi temevano: la distrazione di massa che maschera il dominio dell’élite. Alex Ross, in un saggio su “The New Yorker” (Naysayers) che esplora l’attualità del pensiero della Scuola di Francoforte, ha scritto:
«Se Adorno gettasse uno sguardo al panorama culturale del ventunesimo secolo, potrebbe provare la triste soddisfazione nel vedere realizzati le sue più sconfortanti predizioni.»
L’etica dei social media
Quello che Adorno aveva identificato nella cancellazione del “confine tra finzione e realtà”, cioè la prima impollinazione del “potenzialmente fascista”, ha finito per diventare lo stato endemico dei social media. L’incapacità dei più importanti social media di contenere la proliferazione di notizie false non dovrebbe sorprendere più nessuno. Questa incapacità, secondo Alex Ross, è costruita nel loro stesso modello economico di ricavi e valutazione borsistica. Aggiunge Ross:
«Fin dall’inizio, i grandi gruppi della Silicon Valley hanno assunto un atteggiamento ideologicamente ambiguo nei confronti della degenerazione di Internet. Un momento di svolta si è avuto con l’ondata di pirateria musicale di fine secolo che ha danneggiato in modo duraturo l’idea di proprietà intellettuale. Le notizie false sono un’estensione dello stesso fenomeno e, come nell’era di Napster, nessuno se ne assume la responsabilità. Il traffico batte l’etica.»
L’etica dei media tradizionali
I media tradizionali hanno mostrato la stessa mentalità scaltra e opportunistica dei social media, vedendo, per esempio, in Trump un veicolo di maggiore business. A un certo punto nel 2016 sembrava che la maggior parte dei media desiderasse, consapevolmente o meno, l’elezione Trump.
A livello comunicativo, e quindi economico, Trump avrebbe funzionato meglio di Hillary Clinton; sarebbe stato meno “noioso”, più “pop” della candidata democratica. John Martin, CEO del gruppo che possiede la CNN (il contrappeso a Fox News), probabilmente abbagliato dagli ottimi ascolti del suo network, ha parlato di “un appeal [quello di Trump] che sarebbe evaporato con un’amministrazione Clinton”.
Già nell’estate del 2016, tra gli elettori già serpeggiava una sorta di ebbrezza nichilista. Questa ubriacatura potrebbe avere rappresentato un fattore decisivo nella elezione di Trump tanto quanto l’insoddisfazione economica o il risentimento razziale. Il meccanismo in base al quale la gente appoggia un programma politico “in gran parte incompatibile con il proprio interesse razionale”, per dirla con Adorno, richiede la messa in campo di una sofisticata macchina dell’inganno.
L’inversione della storia
Quando è stato annunciato l’acquisto della casa dei Mann, Frank-Walter Steinmeier, allora ministro degli Esteri tedesco e oggi presidente della Repubblica federale tedesca, ha dichiarato:
«In tempi burrascosi come i nostri, abbiamo sempre più necessità di leganti culturali con il nostro partner più importante al di fuori dell’Europa.»
Steinmeier pensava alla villa di Mann a Los Angeles come a un avamposto del pensiero cosmopolita, dato che il nazionalismo era ed è in espansione su entrambe le rive dell’Atlantico e non solo nei paesi che si affacciano quell’oceano.
L’ironica inversione di ruoli tra America e Germania, rispetto al loro trascorso, è piuttosto evidente come lo è oggi l’aspirazione della Germania a diventare leader morale del mondo libero. Il paese che per lungo tempo è stato sinonimo di follia nazionalista, sembra voler resistere con determinazione alla regressione politica e culturale.
È in prima linea contro l’opportunismo dei grandi gruppi della Silicon Valley, nella difesa della privacy, dei diritti d’autore e nel porre un robusto argine alla diffusione del linguaggio improntato all’odio politico e razziale. Siamo veramente al rovesciamento della storia.
Forse la Germania è l’unico paese nella storia del mondo che abbia tratto un qualche insegnamento dai propri errori.
P.S.
Steve Bannon, il teorico degli Alt-right —la destra alternativa alla destra tradizionale — ha discusso proprio una tesi di laurea su Adorno. La sua tesi è che l’antisemitismo di Wagner ha impedito ad Adorno di nutrire e risolvere il suo amore per la musica del compositore tedesco.
Fonte delle informazioni: Alex Ross, The Frankfurt School Knew Trump Was Coming, “The New Yorker”