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L’orizzonte del 2018 è sereno ma la festa non è eterna

ImagoEconomica

Forse era colpa del vino e dei brindisi. O forse era per via di quei funghi nel riso. Fatto sta che il gestore di patrimoni K. rientrò a casa con la testa che girava e la sensazione di essere avvolto nella nebbia. La serata era stata festosa. Si celebrava la chiusura di un anno tranquillo e positivo per azioni, bond, euro, quadri, immobili, beni da collezione, criptovalute e tutto quello che poteva venire in mente come bene d’investimento. L’atmosfera era stata la più rilassata che K. potesse ricordare non solo perché il mondo cresceva senza inflazione ma anche perché questa situazione di perfezione tranquilla era vista da tutti come ormai naturale e non eccezionale.

Tanto naturale da non potere che proseguire non solo nel prossimo anno, ma anche in quelli successivi, magari ulteriormente migliorata e arricchita dalla riforma fiscale americana, da una maggiore integrazione europea attraverso l’asse Macron-Merkel che non vedeva l’ora di mettersi in azione e da un’economia asiatica in piena fioritura. Sprezzatura, la definiva K. dentro di sé. Sprezzatura era quell’arte così apprezzata nel Rinascimento di fare con grazia e levità cose difficilissime che avevano in realtà richiesto un lungo e faticoso tirocinio. Economia e mercati finanziari giravano su un piano levigato senza strepiti, clangori o cigolii, ma dietro questa perfetta armonia c’era il duro lavoro degli ufficiali di macchina delle banche centrali, che procedevano con carte nautiche invecchiate e strumenti di misurazione logori come la curva di Phillips e in mezzo a mille dubbi.

Sono stati bravi, niente da dire, pensò K. Hanno avuto anche fortuna e in più si sono coperti le spalle tenendo la liquidità sovrabbondante e mantenendo ben lubrificati tutti gli ingranaggi. E però, prima o poi, qualche errore lo faranno. La Fed, ad esempio, non riuscirà a non alzare i tassi oltre il livello neutrale. Se infatti l’economia continuerà ad andare bene, come ci diciamo tutti dalla mattina alla sera, la banca centrale cercherà magari di temporeggiare e di saltare un trimestre ogni tanto, ma alla fine non potrà fare violenza alla sua natura e restare a guardare passivamente. E allora sarà come la roulette russa. Uno, due, tre rialzi nel 2018 andranno a vuoto e l’economia reggerà, ma il quarto, quinto o sesto rialzo rischieranno seriamente di mettere fine all’espansione e avviare una recessione.

È sempre stato così, prima o poi si sbagliano i conti, si fa un rialzo di troppo e l’economia, che fino a quel momento andava benissimo, si affloscia all’improvviso. Vedremo, pensò K. sciogliendo nel bicchiere un antiacido, ma i cattivi pensieri non lo abbandonarono. Magari non fanno quell’errore, ma quello opposto di lasciare correre la crescita senza frenarla in tempo prima che si trasformi in inflazione. È bella la crescita ed è ancora più bello sentirsene gli autori come sta capitando in questo periodo ai banchieri centrali, che se ne vanno in giro con quell’aria compiaciuta e quasi euforica. È bello fare contenti i politici, che a loro volta si fanno belli di qualunque dato positivo, e non avere pressioni da loro. Ed è quasi inevitabile tentare di placare la rabbia dell’opinione pubblica dopo il 2008 cercando di crescere il più possibile.

Il problema è che di rado, nella storia, ci si è fermati in tempo. Negli anni Sessanta si pensò di potere crescere senza inflazione per sempre e di potere finanziare la guerra nel Vietnam e la guerra alla povertà senza  conseguenze negative. Si era talmente convinti di essere invulnerabili che quando l’inflazione cominciò davvero a salire velocemente i mercati obbligazionari non vollero crederci e andarono lunghi di scadenze lontane pensando che l’inflazione sarebbe rientrata velocemente. Non fu così, e i poveri governatori della Fed degli anni Settanta, bombardati da telefonate notturne dalla Casa Bianca che intimava loro di non sognarsi di alzare i tassi, assistettero impotenti al montare dell’inflazione e si fecero venire crisi d’ansia ed esaurimenti nervosi mentre i corsi dei titoli di stato erano in caduta libera.

Si tira sempre troppo la corda, pensò K. Il peso allo stomaco si era fatto insopportabile, ma per fortuna stava finalmente arrivando il sonno. L’ultima cosa che K. vide da sveglio, mentre le palpebre si abbassavano, fu lo studio di McKinsey sul tavolino davanti al divano da cui non riusciva più ad alzarsi. E proprio da quello studio partì il suo sogno. K. si ritrovò così nel futuro prossimo, in quel 2030 in cui, secondo McKinsey, i disoccupati causati dall’automazione nel mondo nei dodici anni precedenti sarebbero stati tra i 400 e gli 800 milioni. Va detto che nel sogno tutti erano comunque tranquilli, perché il salario di cittadinanza copriva tutte le necessità di base e anche qualcosa di più.

Mentre K. passeggiava su una strada percorsa da auto che si guidavano da sole, su uno schermo gigante compariva il filosofo Massimo Cacciari, che K. aveva visto in televisione qualche settimana prima, che teorizzava come positiva, sulla base del Marx giovane, la liberazione dal lavoro grazie alla ricchezza prodotta dalle macchine. Ora finalmente, diceva il filosofo, chi vuole può dedicarsi all’ascolto di Mozart o alla composizione di poesie. Anche Keynes, del resto, aveva previsto e salutato un futuro di questo tipo. Guardandosi in giro, tuttavia, le poche persone in cui si imbatteva erano impegnate in videogiochi piuttosto insulsi o erano sotto l’evidente influenza di sostanze psicotrope o entravano o uscivano da centri massaggi.

Gli unici esseri umani che apparivano presenti a se stessi erano quelli che si recavano al lavoro nei grattacieli futuristici delle grandi società che producevano l’intelligenza artificiale, che a dire il vero stava cominciando a prodursi e riprodursi da sola. C’era insomma una casta di grandi sacerdoti della tecnologia, intelligentissimi, ricchi e sinceramente dediti al benessere dell’umanità, e poi c’erano quelle che Toni Negri aveva definito anni prima le moltitudini indifferenziate, le plebi che nella Roma imperiale erano mantenute dalle pubbliche elargizioni e che venivano poi intrattenute da sontuosi spettacoli circensi.

Da appassionato di storia, K. sapeva che il confine tra utopia e distopia è incerto e poroso, ma aveva la netta sensazione di trovarsi in una situazione distopica, anche perché il suo lavoro di gestore di patrimoni era diventato nel frattempo facile, ma anche molto ansiogeno. I 400-800 milioni di nuovi disoccupati (solo in piccola parte compensati dai nuovi assunti nella tecnologia) avevano infatti provocato la fine definitiva dell’inflazione salariale. Chi aveva un lavoro vedeva ogni giorno qualche collega scortato all’uscita con lo scatolone delle sue povere cose e l’ultima cosa che gli passava per la testa era di chiedere un aumento di stipendio. Il collega licenziato cercava di inventarsi qualche attività nei servizi, ma la concorrenza era così ampia che il reddito finale era quasi allineato con il salario di cittadinanza.

I grandi sacerdoti della tecnologia, dal canto loro, erano pagati in azioni e le azioni continuavano a salire, perché i bond erano ormai da due decenni inchiodati su rendimenti vicini allo zero e i multipli azionari continuavano a gonfiarsi. I gestori di patrimoni, e i loro clienti, si trovavano quindi nella difficile condizione di dovere scegliere tra obbligazioni senza rendimento e azioni sempre più care e rischiose. Quando K. si risvegliò affannato, una pallida luce filtrava già dalla finestra. Con l’aiuto di un potente caffé ripensò al sogno, ancora vivo nella memoria. McKinsey (Jobs Lost, Jobs Gained, dicembre 2017) esagerava, si disse. L’intelligenza artificiale e l’automazione erano davvero sul punto di cambiare il mondo, ma questo cambiamento non avrebbe comportato la perdita immediata di così tanti posti di lavoro.

Ci sarebbe stata una lunga fase intermedia in cui l’intelligenza artificiale sarebbe comunque stata sorvegliata o affiancata da un umano. Politici in cerca di spazio, come stava già accadendo a San Francisco, avrebbero proposto leggi e referendum contro l’uso dei robot in una professione dopo l’altra. La discesa numerica della forza lavoro, dovuta al calo demografico globale, avrebbe in parte compensato la minore domanda di lavoro da parte delle imprese. La pubblica amministrazione sarebbe stata usata per creare posti di lavoro certamente improduttivi, ma utili per la pace sociale. Tutto sarebbe stato lento e complicato ma l’effetto sul costo del lavoro tradizionale sarebbe comunque stato depressivo. Anche il lavoro di K. sarebbe stato presto accessibile a un programma di intelligenza artificiale, ma i clienti avrebbero comunque apprezzato la supervisione di un umano.

Ogni giorno ha la sua croce, pensò K. Non ha senso preoccuparsi più di tanto per un futuro che gradualmente impareremo ad affrontare. Nel breve termine, poi, il quadro dei mercati appare tranquillo. Certo, nel 2019 cominceremo a correre qualche rischio (rialzo dei tassi globale, diminuzione della base monetaria, perdita di slancio del ciclo economico) ma per il 2018 quello che si profila è un modesto deterioramento del tradeoff tra inflazione e crescita. Ci potrebbe cioè essere un po’ meno crescita, soprattutto in Cina, e un po’ più di inflazione, ma solo, eventualmente, in America. La nottata, in ogni caso, non sarà stata inutile. Una verifica periodica delle condizioni strutturali e dei problemi che queste si portano dietro sarà comunque utile a storicizzare questo periodo relativamente felice e a non farci pensare incautamente che sarà eterno.

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