Ma in quella notte di mezza estate (era il primo luglio del 1908), i cittadini di Thunder Bay, porto canadese affacciato sul Lago Superiore per trasportare l’argento e il grano dell’Ontario, non sapevano di aver inventato qualcosa che avrebbe fatto discutere fino a oggi. Era nata l’ora legale: orologi spostati in avanti nella bella stagione, per guadagnare sessanta minuti di luce e risparmiare energia, e riportati al loro posto in autunno.
Oggi succede in 75 Paesi, non nello stesso momento ma quasi sempre in piena notte, per incidere meno sugli orari dei trasporti. Quest’anno da noi scatterà alle 2:00 del 25 marzo, per tornare indietro alle 3:00 dell’ultima domenica d’ottobre, come accade in tutta l’Unione europea. In mezzo, prevedibilmente, la solita scia di discussioni (fa risparmiare davvero? Fa male alla salute? Altera i bioritmi?) che torna a galla ogni anno e che il mese scorso ha portato a discutere persino l’europarlamento. Una pattuglia di deputati, guidati dalla verde finlandese Heidi Hautala, vorrebbe abolirla. Strasburgo ha risposto che per ora non è il caso, ma la materia si può approfondire.
Seguire la luce
Del resto, è più di due secoli che se ne parla. Più si allargavano metropoli e rivoluzione industriale, più l’idea di alterare i ritmi circadiani per guadagnare tempo – e lavoro, e denaro – si faceva largo. Con un nome a sorpresa tra i primissimi teorici: Benjamin Franklin, scienziato e politico americano, inventore del parafulmine ma soprattutto fra i padri fondatori degli Stati Uniti. Nel 1784 scrisse un articolo sul Journal de Paris: “An economical project for diminishing the cost of light”. Ovvero, come risparmiare energia (nella fattispecie, il consumo di candele) attraverso idee semiserie – sparare colpi di cannone all’alba, tassare le persiane delle case, razionare le stesse candele –, ma centrate su un’idea di fondo: spingere i parigini ad alzarsi prima dal letto, nei periodi in cui la luce lo consente. Franklin fece persino il conto della cera risparmiabile: 64 milioni di libbre, quasi 30 milioni di chili. Nelle intenzioni era un saggio satirico, nei fatti l’idea ormai era sul tavolo.
Anche se bisogna arrivare alla fine del secolo successivo per le prime proposte in senso contrario: invece di spingere l’uomo a seguire la luce, spostiamo direttamente le lancette. Di due ore, secondo l’idea dell’entomologo neozelandese George Hudson (1895), che aveva preso spunti dai suoi studi sugli insetti. O di 20 minuti per ognuna delle domeniche di aprile, per poi fare marcia indietro a settembre con lo stesso ritmo: lo chiese William Willett, costruttore inglese, nel 1907, sostenendo che «a tutti piacciono le serate in cui c’è più luce, tutti si lamentano quando le giornate si accorciano e quasi tutti hanno parole di rimpianto quando pensano che la luce del primo mattino sia così poco vista o usata…». Prosa elegante per sostenere una richiesta che il gossip dell’epoca attribuì soprattutto alla sua passione per il golf (pare gli spiacesse parecchio interrompere le partire quando faceva buio), ma che spinse verso una bozza di legge discussa l’anno dopo; si impantanò per l’opposizione di contadini e allevatori, preoccupati per l’impatto sul lavoro.
Problemi che nell’Ontario, evidentemente, si sentivano meno.
L’ora legale
Non si sa se la discussione parallela abbia preso spunto dall’Europa o no, ma sta di fatto che Thunder Bay arrivò per prima, in quell’estate del 1908. E subito si accodarono altre città: Regina, Winnipeg, Brandon. Nel 1916, il Manitoba Free Press, giornale della regione, scriveva che l’ora legale era diventata «così popolare che le ordinanze comunali ormai la introducono automaticamente». Era il 3 aprile 1916. Appena quattro giorni prima della legge che la adottò in Germania e Austria, i primi Paesi europei ad adottarla.
Si era in piena Guerra mondiale; quella degli epigoni di Franklin non era più una buona idea, ma una necessità. Si doveva risparmiare tutto il risparmiabile. Tanto che a ruota seguirono Gran Bretagna e Francia. E nello stesso anno, il 4 giugno, si aggiunse pure l’Italia, dove l’ora legale è vissuta a fasi alterne (abolita dal fascismo, ripristinata a sprazzi tra il 1940 e il ’48), prima di essere adottata definitivamente nel 1966, in pieno boom economico.
È ancora utile?
Nessuno trovò da ridire, all’inizio. Tutti d’accordo sulla motivazione di quella che in inglese si chiama, non a caso, Dst, ovvero Daylight saving time, “l’orario del risparmio”. Poi, con l’aumentare dei consumi da casalinghi ed elettrodomestici, qualcuno iniziò ad avanzare dubbi: pc, tv, aria condizionata marciano comunque, luce o no. E allora, quanto si risparmia davvero?
Il primo studio ampio sugli effetti energetici del Dst, condotto da Matthew Kotchen e Laura Grant negli Stati Uniti e pubblicato nel 2011, riscontrava addirittura un aumento dei consumi del 2-4% dovuto all’ora legale. Abbastanza per riaccendere polemiche e aprire altre ricerche, con risultati spesso contraddittori. Almeno fino alla ricerca pubblicata due anni fa da Thomes Havranek, Dominik Herman e Zuzana Irsova, della Univerzita Karlova di Praga. Titolo semplice (“Does daylight save energy?”) per uno svolgimento complesso, se è vero che si tratta di una meta-analisi di 44 studi globali. Elaborazioni, tabelle e calcoli fatti sui risultati dei lavori di tutti i colleghi che avevano fatto ricerca sull’argomento, per arrivare a una conclusione non esattamente clamorosa: il risparmio c’è, ma è dello 0,34% l’anno su scala globale e con mille variabili legate soprattutto alla geografia (più ci si avvicina all’equatore, e meno si risparmia). Poco, se si legge il numero nudo e crudo. Tanto, ribatte chi fa osservare che stiamo parlando dei consumi di un miliardo e mezzo di abitanti del pianeta Terra. Di sicuro non abbastanza per chiudere le polemiche su quella che gli stessi autori definiscono «una delle più diffuse e controverse iniziative politiche del mondo».
E l’Italia? In linea con lo studio di Havranek e soci. Terna, la società che gestisce i flussi di energia, l’anno scorso ha calcolato un risparmio di 567 milioni di chilowattora (110 milioni di euro): più o meno lo 0,16% del fabbisogno nazionale, oppure l’equivalente dei consumi di 200 mila famiglie. In calo, peraltro, rispetto al picco del 2011, quando i milioni di chilowattora risparmiati erano stati 647. Ma moltiplicato per un decennio, danno più di un miliardo di euro di risparmi. E tradotti in emissioni di CO2, fanno 320 mila tonnellate in meno l’anno. Come se sparissero di colpo dalla circolazione 150 mila auto diesel.
Questione di salute
Eppure, le critiche maggiori all’ora legale, più che da chi tiene i conti dell’energia, vengono da medici e salutisti. L’alterazione del ritmo circadiano incide sul corpo, che ci mette più o meno una settimana ad adattarsi. Questo piccolo shock simile al jet lag, ripetuto due volte l’anno, avrebbe conseguenze non trascurabili. Uno studio svedese parla di un aumento di attacchi cardiaci nelle prime tre settimana di ora legale. Si citano statistiche che registrano aumenti degli incidenti, di traffico e da lavoro, dovuti alla stanchezza nei primi lunedì dopo il passaggio. Persino Facebook ha trovato che nel lunedì successivo allo scatto c’è più gente che si definisce «stanca». Anche se poi, nel tempo, sui social aumentano gli «happy» e i «wonderful», effetto che i sostenitori attribuiscono alle serate lunghe. Mentre all’ora di sole in più c’è chi collega anche la riduzione, nei periodi di ora legale, degli incidenti stradali che coinvolgono pedoni (meno 13% di vittime, negli Usa) e persino dei furti (meno 7%, sempre negli Stati Uniti).
Pro e contro, insomma. Divisi in liste che – c’è da scommetterci – nei prossimi giorni si allungheranno. Come quelle dei “consigli pratici” per affrontare l’ora X, che ci vedremo riproporre manco ci fosse da prepararsi a un viaggio intercontinentale: adattare la sveglia un po’ alla volta, fare passeggiate all’aria aperta, non dimenticare la colazione… Ma soprattutto, ricordarsi che l’orologio va portato avanti, non indietro. Quello sì, c’è sempre qualcuno che lo chiede.
Da Eniday.